Studio Legale Avv. Alfonso Luigi Marra
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Riporto di seguito il ricorso tipo per gli avvocati che vogliono sollevare la questione di costituzionalità della (assurda) norma che ha vietato il pignoramento presso terzi per il recupero delle somme di cui ai decreti ex legge Pinto.
ALM
TRIBUNALE DI ________________ SEZIONE ESECUZIONI CIVILI RICORSO ex art. 617 cpc avverso declaratoria di improcedibilità di
pignoramento presso terzi e conseguente estinzione della procedura.
Istante ___________
L’istante propone opposizione avverso il provvedimento di declaratoria di improcedibilità e conseguente estinzione della procedura di pignoramento presso terzi e solleva Questione di anticostituzionalità dell’art. 6, comma 6 del DL n 35 dell’8.4.2013 laddove vieta gli atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di somme liquidate a norma della legge Pinto.
Non sussiste manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24, 41, 42 e 111, della
Costituzione, dell’articolo 6, co. 6 del DL 8.4. 2013, n. 35 laddove recita:
«Art. 5-quinquies — Esecuzione forzata.
1. Al fine di assicurare un’ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma della presente legge, non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di somme liquidate a norma della presente legge.
2. Fermo quanto previsto dall’articolo 1, commi 294-bis e 294-ter, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, i creditori di dette somme, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedure civile, con atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione, con l’effetto di sospendere ogni emissione di ordinativi di pagamento relativamente alle somme pignorate.
L’ufficio competente presso i Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, a cui sia stato notificato atto di pignoramento o di sequestro, ovvero il funzionario delegato sono tenuti a vincolare l’ammontare per cui si procede, sempreché esistano in contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata; la notifica rimane priva di effetti riguardo agli ordini di pagamento che risultino già emessi.
3. Gli atti di pignoramento o di sequestro devono indicare a pena di nullità rilevabile d’ufficio il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione.
4. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla Tesoreria centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano obblighi di accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né sospendono l’accreditamento di somme a favore delle Amministrazioni interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono dichiarazione negativa, richiamando gli estremi della presente disposizione di legge». Con tale norma il legislatore, adducendo di voler assicurare «un’ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate» con la L. 89/01, ha in realtà impedito l’esecuzione forzata dei decreti Pinto, con l’aggravante che non li paga e non li ha mai pagati spontaneamente.
Intento, quello di non pagare, con il quale il legislatore ha operato su due fronti. Da un lato ha disposto che può essere esperita solo una speciale esecuzione mobiliare presso il debitore («…pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile, con atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione»); dall’altro, ha escluso esecuzioni presso le tesorerie precisando pleonasticamente (ad evitare ogni equivoco e accantonamento di somme) che: «gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla Tesoreria centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano obblighi di accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né sospendono l’accreditamento di somme a favore delle Amministrazioni interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono dichiarazione negativa, richiamando gli estremi della presente disposizione di legge» (n. 4 art. 5 quinquies).
La principale innovazione normativa è però che il creditore di un decreto Pinto può eseguire i pignoramenti e i sequestri esclusivamente con una espropriazione forzata presso il debitore (con esclusione di esecuzioni mobiliari presso terzi), con atto notificato al Ministero della Giustizia, Ministero dell’Economia e Finanze e Ministero della Difesa, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione.
Norma sconcertante perché questi in uffici non è mai esistita alcuna somma soggetta ad esecuzione forzata.
Norma in sostanza affetta da svariati profili di incostituzionalità con riferimento agli artt. 3, 24, 41, 42 e 111 Costituzione.
ART 3. È violato l’art. 3 della C. sotto il profilo dell’uguaglianza perché un creditore nei confronti dello Stato il cui credito scaturisce da un decreto Pinto è discriminato rispetto ad un creditore che vanti un credito che derivi da altro che un decreto ex L. 89/01, cosa invero singolare Mentre cioè ogni cittadino può esperire qualsiasi tipo di esecuzione nei confronti dei propri debitori, un creditore ex legge Pinto, non solo può esperire solo una particolare esecuzione mobiliare presso il debitore (con «..atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione..»), ma, per di più, si tratta di un tipo di azione destinata a non produrre altro esito che un inutile dispendio di denaro e di tempo, tanto più che non possono nemmeno essere aggrediti tutti i ben i del debitore, ma solo i fondi esistenti nella contabilità destinati al pagamento dei decreti Pinto, che non esistono.
Una violazione, quella dell’art. 3 della C., che, già in generale, è particolarmente grave, ma che in questo caso è di una anomalia che
sconcerta. Un principio di cui la Corte costituzionale ha fatto larga applicazione in moltissime decisioni eliminando da vari settori dell’ordinamento norme discriminatorie verificando anche l’intrinseca ragionevolezza delle scelte legislative, anche indipendentemente dalla comparazione tra norme.
Principio sempre ribadito sia in relazione alla disciplina generale che in relazione alla censurabilità delle deroghe ingiustificate rivolto al riequilibrio del sistema mediante il ripristino di una disciplina eguale per tutti e la caducazione di deroghe non sorrette da validi motivi (Ordinanza n. 582/1988).
Nella fattispecie la disparità di trattamento tra i creditori di un decreto Pinto e gli altri creditori e tanto macroscopica quanto ingiustificata.
Art. 3, co. 1 e 2 Cost. è violato anche sotto il profilo della ragionevolezza per essere del tutto irragionevole limitare il diritto a procedere ad esecuzione forzata, sia sotto il profilo della non esperibilità di tutti i tipi di esecuzione forzata («..non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di
somme liquidate a norma della presente legge..»), sia sotto il profilo di limitare l’esecuzione forzata presso il debitore alla disponibilità dei fondi in bilanci («..sempreché esistano in contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata..»).
Canone della ragionevolezza al quale innumerevoli volte la Corte Costituzionale è ricorsa per decretare l’illegittimità delle norme.
Principio di ragionevolezza che più volte in passato la Corte ha valutato secondo logiche concordi all’uguaglianza di cui all’art. 3, di modo che la norma irragionevole era costituzionalmente illegittima in quanto apportatrice di irragionevoli discriminazioni.
Una impostazione alla quale conseguiva che, per accertare l’irragionevolezza, era necessario individuare il c.d. tertium comparationis.
Principio di ragionevolezza che, una volta affrancato sia dal principio di uguaglianza che dalla ricerca del tertium comparationis, la Corte ha poi potuto affermare anche in assenza di una sostanziale disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, allorché la norma presenti una intrinseca incoerenza, contraddittorietà o illogicità rispetto al contesto normativo (sentenza n. 450/2000) o rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore (sentenza n. 416/2000).
Al canone della ragionevolezza la Corte è venuta aggiungendo il canone del bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti ed il canone delle compatibilità finanziarie o di sistema. Nel caso di specie nella norma oggetto di censura vi è una palese incoerenza e illogicità, rispetto al contesto normativo, in materia di esecuzione forzata, atteso che sussiste un principio generale secondo cui il creditore, nell’ambito del territorio dello Stato, può aggredire TUTTI i beni del debitore.
Un principio che, se valido per i privati, dovrebbe a maggior ragione esserlo per i soggetti pubblici, che più dei privati dovrebbero osservare le leggi. Discriminazione dunque illogica, incoerente, priva di giustificazioni, nel caso che ci occupa, atteso che non vi è alcuna ragione per sacrificare i creditori di decreti Pinto rispetto ad altri tipi di creditori.
ART. 24 C. È palese la violazione dell’art 24 C. sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, fortemente limitato quando si sia creditori ex lege Pinto, vista la limitazione delle azioni esecutive, al solo pignoramento mobiliare presso il debitore e solo delle somme (inesistenti) iscritte in bilancio all’uopo.
Non v’è dubbio che il diritto di difesa, in un ordinamento democratico fondato sulla Costituzione, si elevi a valore preminente e inviolabile, al pari del diritto di libertà. Qui invece si è istituito che tutti possano agire per la difesa dei propri diritti ed interessi legittimi, salvo i creditori ex lege Pinto.
L’art. 24 della Costituzione è infatti inserito nella Parte I, dedicata ai «diritti e doveri dei cittadini» e ai «rapporti civili», compresi tra l’art. 13 e l’art. 28 della Costituzione.
Dunque, il diritto affermato dall’art. 24 della Costituzione si trova accanto a tutte le varie forme di libertà, che costituiscono il fondamento dei valori garantiti dell’ordinamento democratico. Nella L. n. 98/1984, ad esempio, la Corte Costituzionale attribuisce all’art.
24: «valore preminente, essendo il diritto di difesa inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona».
Un diritto, quello alla difesa, gravemente compromesso da una norma che come qui, elimini nella sostanza la possibilità di agire in giudizio mediante uno strumento che per di più non è uno tra i tanti al quale poter ricorrere, ma l’unico, perché dopo questa norma non resta di fatto che il ricorso al giudizio di ottemperanza, che da possibilità di agire caratterizzate da tempi così lunghi da rendere inattuale la legittima aspettativa del creditore ad essere pagato. Norma quindi, quella oggetto della censura di incostituzionalità, che impedisce di fatto la possibilità di agire in giudizio ex esecutivis, o quanto meno limita fortemente il potere di agire in giudizio, nell’ambito dell’esecuzione forzata, a quei cittadini il cui credito scaturisce dai decreti esecutivi ex Legge Pinto.
ART. 41 e 42 Cost. Sono violati gli articoli 41 e 42 della C. sotto il profilo della lesione dell’iniziativa privata e della proprietà privata in quanto il cittadino proprietario di somme portate da un titolo esecutivo non può di fatto entrare in possesso dei propri beni (somme liquidate nei decreti ex L. Pinto).
L’art. 41 tutela l’iniziativa economica privata, che trova nel diritto di proprietà il suo presupposto. Nella formulazione di cui all’art. 42, secondo comma: «la proprietà privata riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». «L’adozione delle locuzioni riconoscere e garantire consente di potere estendere la tutela del privato non solo alla vicenda dell’appartenenza del bene al suo titolare, bensì anche a tutte le altre modalità di godimento; nel senso che il riconoscimento della rilevanza degli interessi generali e della loro prevalenza su quelli individuali non
può rappresentare un giusto limite quando esso stesso è tale da vanificare il riconoscimento e la garanzia che il secondo comma dell’art. 42 offre al proprietario», (Alfio Finocchiaro, Il diritto di proprietà nella giurisprudenza costituzionale italiana, inttp://www.cortecostituzionale.it/documenti/filesDoc/Finocchiaro_8- 10.10.2009.pdf)
Nella determinazione della tutela della proprietà hanno grande rilevanza anche i principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, nella sua funzione di interprete della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, come meglio specificato infra.
Con riferimento al caso di specie il diritto di proprietà sulle somme di denaro di cui è titolare un soggetto che ha avuto riconosciuto un equo indennizzo ex L. 89/01 viene di fatto compresso e compromesso, in quanto detto cittadino non può agevolmente, o non può affatto, entrare in possesso delle somme di denaro delle quali gli è stato riconosciuto il diritto.
Il diritto di proprietà è quindi violato sotto il profilo del godimento effettivo, in violazione degli artt. 41 e 42 Cost.
ART. 111 Cost. È violato l’art. 111 C. sotto il profilo del diritto ad un giusto processo e all’effettivo soddisfacimento del diritto. Ciò anche in riferimento all’ Art. 6 CEDU e all’art. 41 Prot. Add. CEDU sotto il profilo della garanzia che lo Stato deve dare della effettiva soddisfazione delle pretese risarcitorie ex legge Pinto entro sei mesi dalla esecutività delle sentenze che le riconoscono sul piano interno.
La Corte di Strasburgo infatti si è più volte e da tempo pronunciata nel senso che il mancato pagamento dei decreti Pinto costituisce ulteriore violazione dell’art 6 CEDU e dell’art 41 Prot. Add. CEDU, violando il principio dell’effettività della tutela.
La materia, oltre che in numerosi altri precedenti, è ampiamente trattata nelle nove sentenze della Grande Camera del 29.3.06, (Scordino ed altri c/Italia, rg 36813/1997; Musci c/Italia n. 64699/01; Mostacciolo c/Italia, n.1, n. 64705/01; Mostacciolo c/Italia, n. 2, n. 65102/01; Cocchiarella c/Italia, n. 64886/01; Apicella c/Italia, n. 64890/01; Zullo c/Italia, n. 64897/01; Procaccino c/Italia n. 65075/01; Pizzati c/Italia n. 62361/00) Sulla specifica fattispecie del diritto al risarcimento per il ritardo nel pagamento delle somme spettanti per equa riparazione si veda di recente:
Casi Di Micco Governo italiano Application n. 35770/03 sentenza del 28 luglio 2008 2 sezione.
In particolare nel caso Simaldone\Italia (Affaire n. 22644/03, sentenza del 31/03/2009) è stato stabilito che gli interessi legali non escludono il diritto ad un ulteriore equo indennizzo per il ritardo nel pagamento delle sentenze L. Pinto.
È noto e pacifico che lo Stato italiano, con riferimento alla lungaggine processuale, presenta disfunzioni tali da negare e/o differire il più possibile l’esercizio dei diritti. La Grande Camera (sentenza del 29.03.06 citata) ha in proposito affermato:
–55. «Una volta che una decisione è stata ottenuta dalla Corte d’Appello, lo Stato non provvede spontaneamente al pagamento, ma costringe il ricorrente a notificare la decisione alla autorità, attendere 120 giorni dopo la notifica, quindi fare un’istanza e qualche volta ricorrere per un provvedimento esecutivo, non sempre con successo perché i fondi possono non essere disponibili».
–89. «..il diritto di accesso ad un tribunale garantito dall’art. 6, par. 1 della Convenzione sarebbe illusorio se il sistema legale di uno Stato contraente consentisse che una decisione giudiziaria finale vincolante rimanesse inefficace a danno di una parte. L’esecuzione di un giudizio pronunziato da una qualunque Corte deve quindi essere considerato come parte integrante del ‘processo’ ai fini di cui all’art. 6».
–103. «Questa Corte sottolinea che, per essere effettivo, un rimedio risarcitorio deve essere accompagnato da un adeguato finanziamento, così che possa essere dato effetto alle decisioni entro sei mesi dal loro essere depositate nel registro della corte d’appello che riconosce il risarcimento, che, come dalla legge Pinto, sono immediatamente esecutive».
Il concetto è stato ribadito anche nella sentenza del 21.12.2010, Gaglione c/Italia (ric. nn. 45867/07, 45918/07, 45919/07, 45920/07, 45921/07, 45922/07, 45923/07, 45924/07, 45925/07, 45926/07, 45927/07, 45928/07, 45929/07), in cui si accerta la violazione degli artt. 6, 6-1, 34, 35, 35-1, 35 - 3, 35-3-b, 41, 46, 46-2, P1-1, P1-1-1 CEDU e si statuisce:
«Lo Stato deve garantire l’effettiva soddisfazione delle pretese risarcitorie ex lege Pinto entro sei mesi dalla esecutività delle sentenze che riconoscono tali pretese sul piano interno. Lo stato non può richiedere ai propri cittadini di ricorrere avverso le inefficienze della L. Pinto attraverso la Pinto stessa. Il riconoscimento degli interessi moratori non è sufficiente a riparare i danni morali patiti a causa dell’eccessiva durata del procedimento esecutivo. Si raccomanda allo Stato Italiano di intervenire quanto prima per arginare tale situazione, in particolare emendando ove necessario la L. Pinto, ed istituendo un fondo ad hoc per il risarcimento dei danni da eccessiva durata del processo».
Nel caso che ci occupa l’essere oltremodo difficoltoso recuperare le somme di cui il cittadino è creditore rende inefficace il principio dell’effettivo soddisfacimento del diritto, con violazione anche del principio che il pagamento deve avvenire entro 6 mesi dall’emanazione del decreto Pinto, con conseguente violazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 6 CEDU e art. 41 Prot. Add. CEDU. Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 art. 6 co. 6 che stabilisce: «Art. 5-quinquies – Esecuzione forzata. 1. Al fine di assicurare un’ ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma della presente legge, non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di somme liquidate a norma della presente legge.
2. Fermo quanto previsto dall’articolo 1, commi 294-bis e 294-ter, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, i creditori di dette somme, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro
II, titolo II, capo II del codice di procedura civile, con atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione, con l’effetto di sospendere ogni emissione di ordinativi di pagamento relativamente alle somme pignorate.
L’ufficio competente presso i Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, a cui sia stato notificato atto di pignoramento o di sequestro, ovvero il funzionario delegato sono tenuti a vincolare l’ammontare per cui si procede, sempreché esistano in contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata; la notifica rimane priva di effetti riguardo agli ordini di pagamento che risultino già emessi.
3. Gli atti di pignoramento o di sequestro devono indicare a pena di nullità rilevabile d’ufficio il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione.
4. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla Tesoreria centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano obblighi di accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né sospendono l’accreditamento di somme a favore delle Amministrazioni interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono dichiarazione negativa, richiamando gli estremi della presente disposizione di legge.», per violazione degli artt. 3, 24, 41, 42 e 111 della Costituzione». Si chiede in conseguenza che il Giudice, previa sospensione del processo e l’emissione di ogni ulteriore provvedimento inerente opportuno e consequenziale, voglia sollevare la questione di illegittimità costituzionale del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 art. 6 co. 6 e rinviare la questione alla Corte costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi della istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospenda il giudizio in corso ed ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri od al Presidente della Giunta
regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione. L’ordinanza viene comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato, con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.
Avv. Alfonso Luigi Marra