LE OPERE DI MARRA:

È autorizzata la duplicazione di tutto il materiale originario di questo blog con citazione della fonte.

Cinque ricorsi per anticostituzionalità delle 5 leggi regala-soldi alle banche. (Ringrazio gli avvocati Ginaldo Cucinella, Maria Benedetti e Tamara Manzo per la preziosa collaborazione). Marra

Ricorsi per anticostituzionalita’: -1) dei decreti ingiuntivi in favore delle banche in base
all’estratto conto; -2) della decorrenza tardiva della valuta; -3) dell’anatocismo, ovvero
illegittimità della capitalizzazione degli interessi passivi quand’anche praticata pure per gli
interessi attivi ove non sia parificata anche l’entità quantitativa del tasso attivo e di quello
passivo; -4) dell’innalzamento del tasso usuraio; -5) della ri-introduzione della commissione
di massimo scoperto. (I ricorsi risalgono al 26.10.2011, ma sono ancora attuali, anche in
relazione quello circa all’anatocismo, abrogato nel gennaio 2014, perché è utile per confutarlo,
nelle cause contro le banche, in relazione al passato).

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-1) INCOSTITUZIONALITA’ DEI DECRETI INGIUNTIVI IN FAVORE DELLE BANCHE IN
BASE ALL’ESTRATTO CONTO.

Non sussiste manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale
– per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della
Costituzione – dell’articolo 50 del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 (in Suppl. ordinario n.
92 alla Gazz. Uff., 30.9.73, n. 230), intitolato: «Testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia», che recita: «La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il
decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in
base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti
della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
La possibilità per le banche di ricorrere per ottenere il decreto ingiuntivo in base al mero
estratto conto (una ‘certificazione’ di parte) non può che basarsi su una normativa
palesemente illegittima.
Illegittimità costituzionale le cui motivazioni descriviamo di seguito, ma da tempo divenuta
grottesca, vista la giurisprudenza da anni consolidata sull’illegittimità totale o parziale delle
voci che compongono il saldo, quindi pacificamente errato a priori. Di talché, considerata la
vastità dei fenomeni bancari, siamo di fronte a una piaga sociale su cui è urgente intervenga
la Corte Costituzionale.
Un’illegittimità che comunque sussiste dall’origine perché l’articolo 633 cpc – nel prevedere
che chi è creditore di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose
fungibili, o chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, può adire il giudice
competente per l’ingiunzione di pagamento o per la consegna – richiede però, per la
concessione del provvedimento monitorio, che il credito azionato sia certo, liquido ed
esigibile.
Ora, quanto alla liquidità, occorre che l’importo sia determinato nel suo ammontare o sia
determinabile senza necessità di calcoli complessi, o comunque facilmente liquidabile in base
a dati desumibili dalla documentazione prodotta dal creditore.
Quanto all’esigibilità occorre che il credito sia scaduto e non sottoposto a condizione o
controprestazione, dovendo altrimenti il creditore fornire elementi anche solo indiziari per far
presumere l’adempimento della controprestazione o l’avveramento della condizione.
Quanto infine alla certezza consiste nella necessità di prova scritta del credito azionato.

Prova scritta proveniente, non solo dal debitore, ma anche da un terzo, e che,
sebbene priva di efficacia probatoria assoluta, venga ritenuta dal giudice atta a
dimostrare l’esistenza del credito.
Vi sono poi alcuni crediti che godono di forme di privilegio circa l’attendibilità di
alcune certificazioni che li attestano, e tra essi, eccoci al punto, quelli bancari
relativi ai conti correnti, che di questo regime privilegiato godono
incostituzionalmente.
L’art. 50 del testo unico bancario (TUB: D.Lgsl 385/93) ha infatti introdotto illegittimamente
una fattispecie ‘speciale’ (troppo speciale) di prova scritta ex art. cpc 633, comma 1, n.1.
Secondo cioè l’art. 50 del D lgsl 385/93:
«La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto
dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato
conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve
altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
Una norma variamente illegittima (scandalosa) perché introduce un tipo di prova
scritta anomala e avulsa dal contesto di quelle elencate negli art. 634, 635, 636,
642 cpc.
Scandalosa, anomala perché deroga né più né meno che al generale principio in
virtù del quale non sono interpretabili quali prove in favore di una parte atti che
essa stessa ha redatto.
Negli altri casi in cui è ammessa la sommarietà della cognizione di determinati tipi
di credito, essa è in sostanza caratterizzata da una facile accertabilità basata sulla
natura del credito, l’oggetto e la particolare attendibilità della prova offerta dal
ricorrente.
Nel caso invece dell’estratto conto di cui all’art. 50 del TUB la sommarietà è
(incredibilmente) basata sul riconoscimento alla banca di una fiducia certo non
riscontrabile nella vox populi e comunque inspiegabile.
Una fattispecie, si osservi, quella ex art. 50 D.lgs. 385/93, nella quale addirittura
non si richiede, per la formazione della prova scritta, nemmeno la partecipazione o
la supervisione di un soggetto terzo: in pratica un’esagerazione; oltre che una
violazione.
Esigenza di terzietà alla quale quella sghemba norma vuole far fronte eleggendo a
‘controllore’ il dirigente della banca: un dipendente del creditore che certifica la
certezza, liquidità ed esigibilità del saldo che servirà poi per il rilascio del decreto
ingiuntivo..
Un privilegio catastrofico per la società: un esonero da ogni garanzia richiesta a
chiunque e in qualunque caso.
Catastrofico a maggior ragione nell’ambito del giudizio monitorio, disciplinato
dagli artt. 633 e ss. cpc e rientrante nella più ampia categoria dei procedimenti
sommari non cautelari: provvisori e precostitutorii dell’esito definitivo della
controversia a seguito della mancata opposizione, e del suo rigetto.
Una norma genocida, come del resto tutte le norme filo-bancarie, la cui
spaventosa illegittimità è ulteriormente aggravata dalla ancor più spaventosa,
discrezionale tendenza a rilasciare il provvedimento sovente in forma
provvisoriamente esecutiva ex art. 642 e 648 cpc: una esecutività incredibile a
fronte di crediti che, come dicevamo, per giurisprudenza consolidata, risulteranno
quasi sempre parzialmente, se non totalmente, inesistenti.

Una normativa che rende possibile da decenni la rovina tanto violenta quanto
illegittima di milioni di persone mediante il mezzo ‘legale’ di decreti ingiuntivi
fondati a volte sul nulla e quasi sempre su un saldo errato, e in ogni caso illeciti se
si considera la questione del signoraggio primario e secondario, che per fortuna
oggi (26.10.11), forse un po’ anche sotto la spinta delle carte di questo difensore,
inizia a emergere con le sue sembianze di più brutto dei mostri dal laido fango nel
quale la pochezza e i biechi opportunismi dei poteri – da quello bancario a quelli
politico, giudiziario, burocratico e mediatico – lo accudiscono da sempre in cambio
dei privilegi e a scapito delle genti, difendendolo ancor oggi con una veemenza
ottusa degna di miglior causa.
Art. 50 del TU che peraltro, in relazione all’estratto conto che la banca deve
allegare al ricorso, non specifica l’arco di tempo che deve essere preso in
considerazione, sicché, per di più, le ‘verifiche’ del direttore non si estendono ai
numeri relativi ai periodi che la banca decide che si devono dare per buoni per atto
di fede.
Un’assurdità perché è ovvio che il saldo è frutto di tutti movimenti, a partire dal
primo, quand’anche il conto fosse vecchio di cent’anni.
Un’assurdità a maggior ragione se si considera che molte delle condizioni e delle
competenze inserite nel conti correnti sono state legislativamente e
giurisprudenzialmente riconosciute illegittime, oltre a essere illegittime
costituzionalmente.
Disciplina ex art. 50 D. Lgs. 385/93 che risulta quindi in contrasto con i principi di
cui agli artt. della Costituzione 1, 2, 3, 4, 24, 41, 47, 101 102, 104 e 117. In
particolare con gli:
ART. 1, dove recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», in quanto di fatto
tale normativa è espressione di una sovranità, non del popolo, ma delle banche.
ART. 2, dove recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,
sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
La possibilità di eseguire illegittimamente i crediti tramite decreto ingiuntivo, a maggior
ragione se esecutivo, pone infatti le banche in una posizione di grave privilegio nei confronti
dei cittadini incidendo sulla vita sociale al punto da realizzare una molto anomala forma di
sovranità di fatto, visto che il denaro è tecnicamente il corrispettivo di ogni bene.
È ovvio cioè che nel momento in cui si sottopone l’intera collettività – perché non
c’è cittadino che non sia in un modo o nell’altro in rapporto con le banche – ad un
tale giogo, si realizza un trasferimento di sovranità in favore delle banche e una
lesione del libero godimento dei diritti inviolabili delle persone.
Uno strumento processuale, quello di cui all’art. 50 D. LGS. 385/93, che privilegia
– a scapito della garanzia e inviolabilità di ogni diritto – delle entità che, per di
più, è conclamato lo esercitino in maniera aberrante.
ART. 4, dove recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società».
ART. 35, dove recita: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni».

Il diritto al lavoro può concretamente svilupparsi solo in base a un sistema
economico giusto ed esente da privilegi che soffochino l’economia, altrimenti
diviene un’astrazione, come appunto accade per effetto dell’art. 50 D. LGS.
385/93.
ART. 3, dove recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali».
L’art. 50 del TUB introduce un’inammissibile disparità di trattamento tra le banche
e gli utenti del sistema bancario.
Viola anche il principio di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost.) perché si
configura come una previsione ad hoc che, attraverso il previsto procedimento
‘semplificato’, si traduce in un mezzo dissuasivo della contestazione della
fondatezza dei crediti vantati dalle banche.
Ciò a maggior ragione in riferimento all’art. 24 Cost. in combinato disposto con
l’art. 2697 c.c., perché crea un notevole squilibrio processuale mediate il
consentire la concessione del decreto ingiuntivo, magari esecutivo, senza bisogno
di assolvere al preliminare onere di certezza e di prova del credito vantato,
obbligatorio per tutti gli altri cittadini.
Inoltre, anche in sede di giudizio a cognizione piena introdotto con l’atto di
citazione in opposizione al decreto ingiuntivo, si configura, ai fini dell’ottenimento
della sospensione ex art. 649 cpc della già concessa efficacia esecutiva, e a scapito
del contraente debole, come una sostanziale inversione dell’onere dell’azione e
della prova a cui è gravoso e difficile ottemperare.
Sempre in relazione all’art. 3 Cost., peraltro, ove si dovesse poi ritenere legittima
l’assurda disciplina in questione, ne deriverebbe il paradosso di doverla estendere
anche agli operatori economici estranei al settore bancario, che non possono fin
qui (fortunatamente) avvalersi della ‘corsia preferenziale’ introdotta dall’art. 50 D.
LGS. 385/93.
ART 41, dove recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
L’Art. 47 Cost. dove recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le
sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del
risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al
diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
L’art. 50 TUB viola sia entrambe le norme che il loro combinato.
Quanto al fondamentale art. 41 C., l’attuazione, in Italia come nel mondo, del
principio in esso enunciato (principio in un modo o nell’altro necessariamente
tipico di ogni Costituzione concepibile), avrebbe garantito uno sviluppo corretto di
ogni forma di attività economica, e avrebbe impedito la trasformazione
dell’economia nel fattore di crisi della vivibilità del pianeta, perché l’involuzione
climatica e il guasto ambientale in generale sono appunto frutto della violazione
sistematica di quel principio, ovvero della sistematica subordinazione dell’uomo
all’economia, anziché dell’economia all’uomo (che è poi la definizione che questo
avvocato dà del consumismo).

Un principio che – non è purtroppo un argomento di colore – è stato
praticamente letto come se l’art. 41 recitasse che l’iniziativa economica
privata «può svolgersi» (anziché «non può svolgersi») in contrasto con l’utilità
sociale.
Un quadro nel quale l’influsso negativo dell’attività economica bancaria è stato
enorme, anche nel senso che le banche hanno ‘messo alle strette’ le altre attività
causando l’assottigliamento, o la scomparsa, dei margini, e quindi tendenze
sistematicamente emergenziali che hanno favorito ogni degenerazione.
Un quadro nel quale il precetto di cui all’art. 47 ha un suono stridente, se si pensa
a quanti soprusi, espoliazioni, abusi, violazioni ha subito dalle banche l’intera
società in ogni forma di rapporti economici, perché la concessione di agevolazioni
come quella di cui all’art. 50 del TUB innesca delle situazioni illegittime alle quali
solo un’esigua parte dei cittadini riesce a reagire, e generalmente con scarso
successo.
Un quadro nel quale il combinato degli artt. 41 e 47 della C. è la sintesi
dell’opposto di come vanno le cose bancarie.
Un quadro nel quale è palese il contrasto tra la norma impugnata e il principio di
tutela della proprietà e del risparmio privato.
Una norma che consente dei provvedimenti monitori spesso provvisoriamente
esecutivi basati su scritture dense di addebiti ingiusti e illegittimi ma
ciononostante adatti ad aggredire i beni del cittadino.
Una violazione del diritto di proprietà privata attraverso uno strumento
processuale, il decreto ingiuntivo, che, inaudita altera parte, consente, nella
fattispecie, di sottrarre al cliente i suoi beni sulla base di una documentazione di
parte.
Una pratica frutto solo di un gravissimo asservimento del potere legislativo alle
banche, che, in oligopolio, in cartello, divorano il risparmio, distruggono le
aziende, impoveriscono la società.
ART 24, dove recita: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti
ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli
errori giudiziari», e art. 2697 cc.
In virtù dell’art. 50 TUB, la «prova scritta» richiesta dall’art. 633 cpc può essere
costituita, nella fase monitoria, dall’esibizione dell’estratto conto certificato
conforme alle scritture contabili da un dirigente della banca, considerato
giustificativo dei credito, salvo dimostrazione dell’esistenza-consistenza dello
stesso nella fase di cognizione piena che s’instaura con l’atto di opposizione:
giudizio che soggiace alla regola dell’onere della prova ex art. 2697 cc, la
quale incumbit ei qui dicit, sicché è la Banca creditrice opposta a dover dimostrare il
perché della formazione del proprio credito e delle poste del debito in capo al
correntista.
Il procedimento di ingiunzione o di decreto ingiuntivo è un procedimento speciale
di cognizione nel quale l’accertamento è sommario in quanto parziale e limitato
alla prospettazione e\o alla sola prova scritta prodotta dal ricorrente, ma è
comunque destinato a produrre un provvedimento suscettibile di passare in

giudicato, essendo impugnabile solo per revocazione o per opposizione di terzo nei
limiti stabiliti dall’art. 656 cpc.
L’art. 50 TUB comporta, tra l’altro, una sproporzione notevole quanto
ingiustificata tra le facoltà e gli oneri processuali probatori a carico dei correntisti
e delle banche.
L’estratto conto, inoltre, si limita a indicare un dato numerico che non consente di
per sé alcun controllo in ordine alle singole poste considerate né alle modalità dei
conteggi compiuti, per cui si deve necessariamente ammettere che il debitore
possa a sua volta limitarsi a negare il valore probatorio dell’atto attraverso una
generica contestazione e pretendere l’esibizione di un’idonea documentazione
aggiuntiva.
Proprio in questo senso si è recentemente pronunciata la Cassazione n. 9695, del
3.5.2011, accogliendo il ricorso di una società che aveva formulato un quesito sul
diritto della banca a procedere a esecuzione forzata dei crediti scaturenti da
contratti di conto corrente documentati con la produzione in giudizio «del solo
estratto conto finale».
Secondo i giudici di legittimità, infatti, «deve escludersi l’idoneità probatoria
dell’estratto di conto corrente» pur se certificato secondo le procedure previste dalla
legge.
Infatti, «… esso, in caso di contestazione, non può integrare di per sé prova a favore
dell’azienda di credito dell’entità del credito, in quanto atto unilaterale proveniente dal
creditore e dovendo ritenersi eccezionale la valenza probatoria ad esso riconosciuta ai fini
del conseguimento del decreto ingiuntivo. E come tale non estensibile al di fuori delle
ipotesi espressamente previste dalla legge».
Un’affermazione, quella della Cassazione, che non richiama direttamente
l’incostituzionalità, ma costituisce una palese allusione ad essa, oltre che
l’espressione di un’altrettanto palese malessere di fronte a una norma talmente
iniqua.
ARTT. 101, 102 e 104, 117,1, in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e della Liberta Fondamentali, ratificata e resa
esecutiva con legge 4.8.1955, n. 848.
Il legislatore delegato, nel disporre intenzionalmente al solo fine di facilitare le azioni delle
banche contro i clienti su pretesi scoperti in conto corrente, ha violato la riserva ai magistrati
della funzione giurisdizionale e leso la loro indipendenza e autonomia.

L’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che
sancisce il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale,
impone al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo di Strasburgo, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo
scopo d’influire, su una singola causa o su una determinata categoria di controversie,
attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato
vantaggioso per una parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse
generale».
Il legislatore nazionale – pur in presenza del grande malessere sociale generato dalle condotte
bancarie – ha invece emanato una norma interpretativa immotivatamente favorevole alle
banche, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo prefigurabili
quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del
divieto d’ingerenza.

L’art. 50 d.lgs 385/93 consente infatti di «chiedere il decreto d’ingiunzione previsto
dall’articolo 633 del cpc anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle
scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì
dichiarare che il credito è vero e liquido», ovvero in base ad atti che non hanno
alcuna valenza probatoria e in base a varie voci controverse (pacificamente
truffaldine), come le commissioni di massimo scoperto trimestrali, l’addebito
tardivo della valuta anche ben oltre i tre giorni fissati dalla nuova e comunque
gravissima e illegittima normativa, e quindi la trasformazione trimestrale di tutto
ciò in capitale produttivo a sua volta degli stessi anomali ‘frutti’ in un meccanismo
diabolico di moltiplicazione del debito.
Una situazione a maggior ragione paradossale (specie poi in considerazione della natura di
norma speciale del d.lgsl 385/93) di fronte a degli estratti conto che quando vengono opposti
si rivelano sistematicamente errati.
Per tali motivi va sollevata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli
artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della Costituzione – dell’articolo 50 del
D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 (in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.73, n. 230): «Testo unico
delle leggi in materia bancaria e creditizia», che recita: «La Banca d’Italia e le banche possono
chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base
all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca
interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».

Si chiede in conseguenza che il GI, previa sospensione del processo e l’emissione di ogni
ulteriore provvedimento inerente opportuno e conseguenziale, voglia sollevare la questione di
illegittimità costituzionale dell’art. 50 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e
rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti
i termini e i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata
trasmissione degli atti e sospenda il giudizio in corso ordinando che, a cura della Cancelleria,
l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale sia notificata, salvo non ne sia
data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa e al Pubblico Ministero quando il suo
intervento sia obbligatorio, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle
due Camere del Parlamento.

-2) DECORRENZA ILLEGITTIMAMENTE TARDIVA DELLA VALUTA.
Non è manifestamente infondatezza, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101,
102, 104 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale:
-1) del comma 01, 1, 1 bis e 3 dell’art. 120, del decreto legislativo n. 385, del 1 settembre 1993
(in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230): «Testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia», come modificato:
–dagli artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del
decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21, 22, e 23
del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11 ,
–nonché come modificato e rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 13
agosto 2010, n. 141, quest’ultimo come modificato dall’articolo 3, comma 3, e art. 4, comma 1,
del decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218,
-2) degli stessi artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 – lo si ripete – modificato dall’articolo 8,
comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12
luglio 2011), 21 22, e 23, stante il rinvio ad essi contenuto dall’art. 120 del decreto legislativo 1
settembre 1993, n 385.
Iniziamo, ordunque, con l’osservare che, nell’originaria formulazione, l’art. 120 D.lgs n. 385 del
1.9.1993, in vigore dall’1.1.1994, stabiliva solo che: «Gli interessi sui versamenti presso una banca
di denaro, di assegni circolari emessi dalla stessa banca e di assegni bancari tratti sulla stessa

succursale presso la quale viene effettuato il versamento sono conteggiati con la valuta del giorno in
cui è effettuato il versamento e sono dovuti fino a quello del prelevamento».
Il caso dunque dei versamenti su altra banca o altra succursale non era disciplinato ed era
affidato ad arbitrarie prassi dei vari istituti in virtù delle quali la valuta decorreva dopo un
numero di giorni variabile secondo il tipo, la ‘piazza’ eccetera.
Accredito tardivo della valuta illegittimo perché configura un’appropriazione indebita per gli
interessi così non fatti maturare a vantaggio del cliente, nonché un artifizio e raggiro per gli
interessi addirittura passivi creati ad arte e addebitati nei casi in cui la banca consente sì al
cliente di prelevare immediatamente la somma di cui al titolo versato, che gli accrediterà
tardivamente, ponendolo però per quell’importo in ‘scoperto di valuta’, e quindi
sostanzialmente ‘prestandogli’, a corrispettivo di un tasso passivo, denaro suo (del cliente).
Illegittimo ritardo nell’accredito dei titoli che causa anche, quando si riesca con questi sistemi
a rendere artificiosamente passivo il saldo, l’addebito di commissioni di massimo scoperto
(CMS) e/o di maggiorazioni di tasso per ‘sconfinamenti’ inesistenti eccetera.
Delle illegittime prassi di accredito tardivo – frutto di un materiale, e per ciò stesso
insanabile, contrasto con i fatti – che stavano da ultimo incorrendo in sempre più frequenti
censure giurisprudenziali, vista l’evidenza del fatto che il differimento dell’accredito della
somma comunque versata (in assegni o in qualunque altra maniera) è frutto di una frode.
Una frode perché, scriveva già nel 1987 questo avvocato in l’Atto di citazione già
pronto per i correntisti che vogliano far causa alla propria banca:
«Se Tizio dà un assegno di un milione di lire a Caio il primo gennaio, e Caio in quella stessa data lo
versa, il milione continuerà a produrre interessi in ogni istante del suo esistere, e quindi anche durante
i tre (o trenta) giorni in cui avrà smesso di produrne per Tizio e non avrà ancora iniziato a produrne per
Caio: tre giorni durante i quali produrrà cioè interessi per la banca nonostante essa non sia mai stata
proprietaria della somma».
Sennonché – a inutile riprova del potere di controllo delle banche sulle leggi – il ‘legislatore’
provvidamente interveniva in favore delle banche con due norme, la prima delle quali è l’art.
2 comma 1 del DL n. 78, del 1.7.2009 (Tremonti ter) convertito nella legge n. 102 del
3.8.2009, secondo il quale:
«A decorrere dal 1° novembre 2009, la data di valuta per il beneficiario per tutti i bonifici, gli assegni
circolari e quelli bancari non può mai superare, rispettivamente, uno, uno e tre giorni lavorativi
successivi alla data del versamento».
Tale articolo sarà prima sostituito dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 11/2010 e poi
abrogato dall’art. 6 comma 1 bis del decreto legislativo n. 141/2010 così come modificato
dall’4 del decreto legislativo n. 218/2010.
Successivamente, si è poi provveduto al Decreto Legislativo n. 11 del 27 gennaio 2010, che ha
recepito nel nostro ordinamento la Direttiva Europea 2007/64/CE sui servizi di pagamento,
meglio nota come PSD (Payment Services Directive).

Norme, specie quelle europee – non va mai dimenticato – in realtà emanazione della
BCE: un’illecita organizzazione privata (nella sostanza una società per azioni, come pure la
Banca d’Italia) dedita al crimine del signoraggio primario, e di proprietà delle banche private
che dovrebbe poi controllare, e che controlla invece le istituzioni europee tutte e il Parlamento
europeo: un finto Parlamento, perché non ha il potere di promulgare le leggi che vota: un
potere che è invece appannaggio della Commissione e del Consiglio, a loro volta al servizio
delle lobby innanzitutto bancarie.
Un meccanismo perverso, tremendo, in cui le banche private proprietarie della BCE e delle
altre banche centrali, attraverso esse, legiferano guidando la mano dei sedicenti legislatori del
mondo intero, per di più, non solo nelle materie di loro diretto interesse, ma ormai
praticamente in tutti i campi.
Una situazione i cui i responsabili – se ci sarà prima o poi una vera giustizia – saranno
chiamati a rispondere penalmente e civilmente di fronte al mondo.

Ma, tornando al decreto n. 11/27.1.2010, esso è entrato in vigore secondo le tre seguenti
scadenze:
-dal 1 marzo 2010 per i bonifici, le carte di credito/pagamento, pagamento bollettini, ecc.;
-dal 5 luglio 2010 per gli incassi commerciali (RID, RiBa, MAV, ecc.);
-a data da definirsi, da parte dello Stato, per i pagamenti da/verso la Pubblica
Amministrazione centrale e periferica (es. F23, F24, Pensioni).
Disciplina dei pagamenti modificata, in dettaglio, dall’art. 19 e segg. del d.lgis n. 11/2010, nei
quali si legge quanto segue (che non si applica, però, ai pagamenti tramite assegno).
«D.lgs 11, del 27.1.10, SEZIONE II
TEMPI DI ESECUZIONE E DATA VALUTA:

Art.19
(Ambito di applicazione)
–1. La presente sezione si applica:
a) alle operazioni di pagamento in euro;
b) alle operazioni di pagamento transfrontaliere che comportano un’unica conversione
tra l’euro e la valuta ufficiale di uno Stato membro non appartenente all’area dell’euro, a
condizione che esse abbiano luogo in euro e che la conversione valutaria abbia luogo
nello Stato membro non appartenente all’area dell’euro.
–2. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2, la presente sezione è applicabile anche ad altre
operazioni di pagamento, a meno che non sia diversamente convenuto dall’utilizzatore e dal
prestatore di servizi di pagamento. Resta comunque ferma l’applicazione dell’articolo 23, che non può
essere oggetto di deroga contrattuale. Quando le parti di un contratto di pagamento convengono un
termine massimo di esecuzione superiore a quello di cui all’articolo 20, tale termine non può essere
superiore a quattro giornate operative successive alla ricezione dell’ordine di pagamento.
Art.20
(Operazioni di pagamento su un conto di pagamento)
–1. Il prestatore di servizi di pagamento del pagatore assicura che dal momento della
ricezione dell’ordine l’importo dell’operazione venga accreditato sul conto del prestatore
di servizi di pagamento del beneficiario entro la fine della giornata operativa successiva.
Fino al 1° gennaio 2012 le parti di un contratto per la prestazione di servizi di pagamento
possono concordare di applicare un termine di esecuzione diverso da quello previsto dal
primo periodo ovvero di fare riferimento al termine indicato dalle regole stabilite per gli
strumenti di pagamento dell’area unica dei pagamenti in euro che non può comunque
essere superiore a tre giornate operative. Fino al 1° gennaio 2012, per le operazioni di
pagamento disposte su supporto cartaceo, il termine massimo di cui al periodo precedente
può essere prorogato di una ulteriore giornata operativa.
–2. Il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario applica la data valuta e rende disponibile
l’importo dell’operazione di pagamento sul conto del beneficiario in conformità con quanto previsto
dall’art. 23.
–3. Quando l’ordine di pagamento è disposto su iniziativa del beneficiario o per il suo tramite, il
prestatore di servizi di pagamento di cui egli si avvale trasmette l’ordine al prestatore di servizi di
pagamento del pagatore entro i limiti di tempo convenuti tra il beneficiario e il proprio prestatore di
servizi di pagamento. Nel caso degli addebiti diretti, l’ordine viene trasmesso entro limiti di tempo che
consentano il regolamento dell’operazione alla data di scadenza convenuta.
Art. 21
(Mancanza di un conto di pagamento del beneficiari presso il prestatore di servizi di
pagamento)

1. Se il beneficiario non dispone di un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di
pagamento che riceve i fondi, quest’ultimo mette i fondi ricevuti a disposizione del
beneficiario entro il termine specificato ai sensi dell’articolo 20.
Art. 22
(Depositi versati in un conto di pagamento)
–1. Quando un utilizzatore versa contante su un conto di pagamento nella valuta in cui il
conto è denominato, il prestatore di servizi di pagamento applica la data di ricezione dei
fondi quale data valuta e rende disponibili i fondi immediatamente dopo la ricezione. Se
l’utilizzatore non è un consumatore, l’importo è reso disponibile e la valuta datata al più
tardi la giornata operativa successiva alla ricezione dei fondi.
Art.23
(Data valuta e disponibilità dei fondi)
–1. La data valuta dell’accredito sul conto di pagamento del beneficiario non può essere
successiva alla giornata operativa in cui l’importo dell’operazione di pagamento viene
accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario.
–2. Il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario assicura che l’importo dell’operazione di
pagamento sia a disposizione del beneficiario non appena tale importo è accreditato sul conto del
prestatore medesimo.
–3. La data valuta dell’addebito sul conto di pagamento del pagatore non può precedere la giornata
operativa in cui l’importo dell’operazione di pagamento è addebitato sul medesimo conto di
pagamento.
–4. Il presente articolo non si applica nel caso di rettifica di operazioni di pagamento non autorizzate o
eseguite in modo inesatto o nel caso in cui siano intervenuti errori che ne abbiano impedito la corretta
esecuzione.»
[…]

AI SOLI FINI DELLA CRONISTORIA:
Art. 36 (Modifiche ad altre disposizioni di legge)
1. Il decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 253 di attuazione della direttiva 97/5/CE in
materia di bonifici transfrontalieri, è abrogato.
2. Al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante attuazione tra l’altro della
direttiva 2005/60/CE sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 11, comma 1, dopo la lettera c) è inserita la seguente: “c-bis) gli istituti di
pagamento;”;
b) all’articolo 53, comma 1, secondo periodo, dopo le parole: “nei confronti degli
intermediari finanziari di cui” sono inserite le seguenti: “all’articolo 11, comma 1, lettera
c-bis), autorizzati ai sensi dell’articolo 114 – novies, comma 4, del decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385, e”.
3. L‘articolo 2, comma 1, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, è sostituito dal seguente: “1. A decorrere
dal 1° novembre 2009, la data di valuta per il beneficiario di assegni circolari e bancari
tratti su una banca insediata in Italia non può superare, rispettivamente, uno e tre giorni
lavorativi successivi alla data del versamento. Per i medesimi titoli, a decorrere dal 1°
novembre 2009, la data di disponibilità economica per il beneficiario non può superare,
rispettivamente, quattro e cinque giorni lavorativi successivi alla data del versamento. A
decorrere dal 1° aprile 2010, la data di disponibilità economica non può superare i quattro
giorni lavorativi per tutti i titoli. E’ nulla ogni pattuizione contraria. Resta fermo quanto
previsto dall’articolo 120, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.”.

4. All’articolo 4, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio
1984, n. 21, il secondo periodo è soppresso».
Principi tutti illegittimi perché attraverso essi si tenta – cosa grottesca in una legge – di far
confusione tra il concetto di valuta e quello di disponibilità, in alcun modo collegabili, perché
quale che sia la materiale disponibilità, la decorrenza della valuta deve essere quella
immediatamente successiva al momento in cui la somma cessa di produrre interessi per il
pagatore.
L’accredito, cioè, potrà avvenire quando si vuole in funzione magari di effettive difficoltà o
disguidi, ma la valuta del beneficiario non dovrà mai avere soluzioni di continuità con quella
del pagatore, perché vale il già molte volte reiterato argomento secondo il quale nel preciso
momento in cui il denaro cessa di essere di proprietà del pagatore deve divenire di proprietà
del beneficiario, perché, se c’è un intervallo, durante quell’intervallo quel denaro frutterà
interessi per la banca, che non è mai proprietaria dei soldi.
Così come è pedestremente illegittimo anche il consentire che fino al 31.1.2012 si possano
‘concordare’ termini diversi, sempre ovviamente più favorevoli alle banche, sia perché con le
banche non è dato concordare alcunché vigendo il regime di cartello (chi, del resto, potrebbe
mai spontaneamente e senza alcun corrispettivo voler ‘concordare’ di pagare più), e sia
perché, appunto, è un incremento del costo privo di motivazione.
In sintesi, i termini in prima fase introdotti, a decorrere dal 1.11.2009, dall‘art. 2, del DL n.
78/2009 (Tremonti ter), sono stati sostituiti da quelli stabiliti dall’art. 19 e segg. del d.lgis n.
11/2010 di attuazione della direttiva SEPA (Single Euro Payments Area), secondo il quale, per
tutte le operazioni di pagamento in ambito europeo (o per l’esattezza nell’area SEPA), la
valuta e la disponibilità dei fondi:
-per il beneficiario non può essere successiva a quella di accredito: criterio errato perché, a
prescindere da quando avviene l’accredito, la valuta deve decorrere dalla data in cui la somma
viene stornata al pagatore;
-per il pagatore non può precedere la giornata lavorativa di addebito: criterio non chiaro e di
nuovo errato sempre per lo stesso motivo, ovvero perché il giusto criterio resta far cessare di
decorrere gli interessi a favore del beneficiario dal momento in cui la somma cesserà di
fruttarne per il pagatore.
Per assegni circolari e bancari, quindi, l’originaria disciplina contenuta nell’art. 2,1, dl n.
78/2009 (Tremonti Ter), convertito nella legge 102/2009, e modificata dall’articolo 36,
comma 2, del D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, è stata, poi, abrogata dall’ 6 comma 1 bis del
decreto legislativo n. 141/2010, così come modificato dall’4 del decreto legislativo n.
218/2010.
Infatti, l’articolo 4, comma 1, del Dlgs. 14 dicembre 2010, n. 218, ha inserito il comma 1-bis
nell’art. 6 del D.Lgls 13.8.10, n. 141:
«Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonche’
modifiche del titolo VI del testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla
disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attivita’ finanziaria e dei
mediatori creditizi:
1-bis. Sono abrogati:
a) l’articolo 10 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;
b) gli articoli 7, 8, commi 1, 2, 3, 3-bis e 4, e 13, commi 8-sexies, 8-septies, 8-octies, 8-
novies, 8-decies, 8-undecies, 8-quaterdecies del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7,
convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40;
c) l’articolo 2, comma 5-quater, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito,
con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2;
d) l’articolo 2, commi 1 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102».

A seguito della normativa tutta sopra richiamata, l’art. 120 del T.U. B. d.lgs n. 385/93 è oggi
così formulato:
« Decorrenza delle valute e calcolo degli interessi (1).
Art. 120.
01. Il titolare del conto corrente ha la disponibilità economica delle somme relative agli
assegni circolari o bancari versati sul suo conto, rispettivamente emessi da o tratti su una
banca insediata in Italia, entro i quattro giorni lavorativi successivi al versamento (2).
1. Gli interessi sul versamento di assegni presso una banca sono conteggiati fino al giorno
del prelevamento e con le seguenti valute:
a) dal giorno in cui e’ effettuato il versamento, per gli assegni circolari emessi dalla stessa
banca e per gli assegni bancari tratti sulla stessa banca presso la quale e’ effettuato il
versamento;
b) per gli assegni diversi da quelli di cui alla lettera a), dal giorno lavorativo successivo al
versamento, se si tratta di assegni circolari emessi da una banca insediata in Italia, e dal
terzo giorno lavorativo successivo al versamento, se si tratta di assegni bancari tratti su
una banca insediata in Italia (3).
1-bis. Il CICR puo’ stabilire termini inferiori a quelli previsti nei commi 1 e 1-bis in
relazione all’evoluzione delle procedure telematiche disponibili per la gestione del
servizio di incasso degli assegni (4).
2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati
nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attivita’ bancaria, prevedendo in ogni
caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la
stessa periodicita’ nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori.
3. Per gli strumenti di pagamento diversi dagli assegni circolari e bancari restano ferme le
disposizioni sui tempi di esecuzione, data valuta e disponibilita’ di fondi previste dagli
articoli da 19 a 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11».

(1) Articolo modificato dall’ articolo 25 del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e
sostitutito dall’articolo 4 del D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, con la decorrenza
indicata al comma 2 dell’articolo 6 del medesimo D.Lgs. 141 del 2010.
(2) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n.
141, come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n.
218.
(3) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141,
come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n. 218.
(4) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n.
141, come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n.
218.
Quindi, per quanto riguarda gli assegni:
Versamento assegni circolari emessi dalla stessa banca: valuta dello stesso giorno del
versamento.
Versamento assegni circolari emessi da banca diversa ed assegni bancari emessi dalla stessa
banca:
valuta del giorno lavorativo successivo del versamento ed entro 4 giorni in
disponibilità.
Versamento assegni bancari emessi da banca diversa dalla traente: l’operazione deve risultare
in valuta entro 3 giorni lavorativi e entro 4 giorni in disponibilità (dal 1° aprile 2010).
La descritta disciplina risulta in contrasto con i seguenti artt. della Costituzione:

-ART 41

La decorrenza degli interessi in favore del beneficiario da un momento non
immediatamente successivo a quello in cui gli interessi vengono stornati al
pagatore viola l’articolo 41 C. in tutti e tre i suoi commi.
Il comma 1 (L’iniziativa economica privata è libera.) è violato perché è stato posto a tutela della
proprietà privata. Il legislatore cioè, nel momento in cui dispone l’accredito tardivo, consente
alla banca di sottrarre al cliente la proprietà degli interessi, o addirittura gli addebita interessi
passivi in caso di ‘scoperto di valuta’: una palese violazione (uno svuotamento) del diritto di
proprietà privata.
Il comma 2 (..Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale..) è violato, come il comma 1, in
maniera clamorosa, perché la decorrenza tardiva della valuta configura un’appropriazione
indebita o una truffa: due modi di non perseguire l’utilità sociale che non lasciano dubbi sulla
loro perniciosità.
Il comma 3 (La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.) è violato perché la legge, di
scaturigine lobbistica, è al contrario congegnata in modo da determinare ‘programmi’ e
‘controlli’ in danno del cliente e della società.
-ART. 3. È violato perché la normativa impugnata, ben lungi dal garantire alcuna «pari
dignità» e dal costituire uno strumento per rimuovere gli ostacoli economici che la limitano, è
anzi rivolto a creare – nell’interesse delle banche – ostacoli all’uguaglianza e al
previsto «pieno sviluppo della persona umana» o alla «effettiva partecipazione».
In particolare la normativa richiamata viola il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della C.
mediante l’introdurre un’inammissibile disparità di trattamento tra banche e utenti del
sistema bancario perché – con una previsione ad hoc – consente alle banche un lucro ingiusto
e ingiustificato (illecito) con un pesantissimo influsso su ogni aspetto della vita sociale.
Una disciplina delle valute che rappresenta una violazione del principio generale di
ragionevolezza e ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento.
Un irragionevole, ingiusto privilegio quello di esonerare le banche dal rispetto di norme
inderogabili. Basti pensare all’art. 1322 cc, secondo cui la causa petendi di un contratto deve
essere meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Anche con riferimento all’art. 24 Cost. in combinato disposto con l’art. 2697 cc la disciplina
della valuta crea un notevole squilibrio processuale a favore delle banche rendendo
sostanzialmente impossibile la verifica del corretto operato della banca, e quanto meno
comporta, a favore della banca, un’inversione dell’onere della prova ingiusto, gravoso e
difficilmente ottemperabile.
In ogni caso, fermo restando che non rileva ai fini della valuta quale sarà il tempo materiale
del trasferimento, i trasferimenti avvengono peraltro da decenni mediante sistemi telematici
che consentono di effettuare le operazioni in tempo reale.
Oltretutto, incombendo sulla banca che riceve un assegno con una girata per l’incasso obblighi
riconducibili al rapporto di mandato e dovendo il mandatario assolvere al suo incarico con la
prescritta diligenza, ciò comporta che la banca non potrà non avvalersi, per acquisire la
disponibilità della somma, dei sistemi telematici più efficaci.
-ART 4. È violato dove stabilisce che la Repubblica promuove le condizioni che rendono
effettivo il diritto al lavoro: effettività gravemente pregiudicata da norme che consentano
l’illecita sottrazione, da parte delle banche, del denaro dei cittadini.
-ART 35. L’35 è violato dove istituisce la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni:
lavoro che è invece pregiudicato da fatto che un soggetto – la banca – sottrae al lavoro una
parte notevole delle risorse che esso produce.
-ART 47. È violato dove si legge che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio e disciplina,
coordina e controlla l’esercizio del credito: risparmio pregiudicato dal destinare alle banche
denaro di proprietà dei cittadini e consentire forme di ‘coordinamento’ e di ‘esercizio del
credito’ altamente e iniquamente lesive dei loro interessi.

-ART 117. È violato dove, anche con riferimento all’ordinamento comunitario (in ispecie l’art.
6 CEDU), non consente al Legislatore di interferire nell’amministrazione della Giustizia.
-ARTT. 1, 2, 4, e 35. Da altre angolazioni e più globalmente sono violati perché le norme
impugnate sottraggono, di fatto e formalmente, da un lato, la sovranità al popolo,
trasferendola al sistema bancario; e dall’altro ledono il diritto al lavoro, in quanto la
sottrazione dei soldi al cliente in favore della banca non consente a chi lavora con il proprio
denaro di utilizzarlo appieno, sia perché gliene viene sottratta per alcuni giorni la
disponibilità-proprietà, o lo si costringe a utilizzarlo ‘a prestito’, togliendo così effettività al
diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, e sia perché gliene
viene sottratta definitivamente una parte, cioè gli interessi nei giorni dell’accredito tardivo.
Violano altresì l’art. 2, laddove si dispone l’inviolabilità dei diritti e l’inderogabilità della
solidarietà economica.
ART. 117. È violato anche in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con la
legge del 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 6 della CEDU, infatti, nel sancire il diritto a un giusto processo dinanzi ad un tribunale
indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione
della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire nell’amministrazione della
giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di
controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un
significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse
generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato una norma interpretativa favorevole alle banche
nonostante un orientamento della Corte di cassazione non favorevole, così violando il
principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili nella fattispecie «ragioni
imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto
d’ingerenza.
In relazione alla questione dell’accredito tardivo della valuta, è insomma indiscutibile la
formazione di un nuovo orientamento giurisprudenziale che andava via via riconoscendo
l’illegittimità dell’accredito tardivo della valuta per mancanza di causa petendi.
Gli interventi normativi di cui si evidenzia l’incostituzionalità, in sostanza, non sono stati
causati dall’esigenza o dall’intento di disciplinare una situazione che lo richiedesse, ma sono
invece frutto dell’intento di sottrarre le banche all’avanzare di una giurisprudenza a esse
sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente illegittima e sempre
più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.
-ARTT 41 e 47. Sono violati anche dal punto di vista del principio di tutela del risparmio delle
famiglie e delle imprese e della libertà di iniziativa economica.
Il ritardo nell’accredito tardivo della valuta arreca un grave pregiudizio economico ai clienti sia
nel caso il conto sia in passivo, perché comporta l’indebito addebito per più giorni degli
interessi e delle commissioni di massimo, sia nel caso sia in attivo, perché comporta il
mancato guadagno da parte del cliente degli interessi, che vengono invece illegittimamente
attribuiti alla banca.
L’accredito tardivo della somma causa inoltre varie tipologie di altri danni al cliente, quali farlo
ritrovare ‘scoperto’ e protestato laddove invece disporrebbe delle somme sol che gli fossero
state immediatamente accreditate.
Senza contare che, nel tempo, negli anni, il denaro che viene sottratto dalla banca,
sommandosi, raggiunge cifre sistematicamente elevate o elevatissime, e tali da causare delle
differenze significative dello suo status economico, che – specie sui conti molto ‘movimentati’
– possono, secondo l’entità delle somme in gioco, ammontare a decine, centinaia di migliaia o
milioni, magari molti milioni, di euro.
E questo in presenza di norme quali l’art. 821 c.c., che molto semplicemente attribuisce gli
interessi al proprietario, o di altre, quali il 1346 c.c., che prevede che l’oggetto del contratto
debba essere possibile, lecito, determinato o determinabile; o il 1343 cc., che impone la liceità

della causa, precisando che non debba essere contraria a norme imperative, di ordine pubblico
o buon costume; o il 1322 cc., che prescrive la meritevolezza della tutela della causa petendi.
ART 24 e 102. Sono violati dalle leggi che disciplinano l’accredito tardivo delle valute in
materia di pagamenti tramite bonifici anche perché comportano un aggravio della possibilità
di accertare i tempi degli accrediti dei versamenti.
I cittadini, cioè, non hanno la possibilità di verificare, ed eventualmente provare in sede
processuale (se non ricorrendo a un controllo incrociato con la documentazione del soggetto
disponente), la data della disposizione e l’entità della tardività dell’accredito.
Questo perché il cliente è reso edotto delle movimentazioni solo con la ricezione dell’estratto
conto, ma non ha conoscenza della data/ora in cui viene effettuata la disposizione di
pagamento.
Tale disciplina comporta pertanto una notevole sproporzione tra gli oneri probatori a carico
dei correntisti e delle banche, pregiudicando l’effettività del diritto dei cittadini di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.).
Le norme che qui si tacciano di incostituzionalità hanno, insomma, reso impossibile l’accredito
delle somme del cliente della banca nello stesso giorno in cui è eseguita l’operazione
determinando tassativamente e esplicitamente i numero dei giorni dopo i quali l’accredito
deve avvenire.
In dettaglio la normativa attuale, per quanto riguarda gli assegni, dispone:
Versamento assegni circolari emessi dalla stessa banca: valuta dello stesso giorno
del versamento.
Versamento assegni circolari emessi da banca diversa ed assegni bancari emessi
dalla stessa banca: valuta dello giorno lavorativo successivo del versamento ed
entro 4 giorni in disponibilità.
Versamento assegni bancari emessi da banca diversa dalla traente: l’operazione deve risultare
in
valuta entro 3 giorni lavorativi e entro 4 giorni in disponibilità (dal 1° aprile 2010).
Per quanto riguarda i bonifici, invece, prevede:
La valuta per il beneficiario non può essere successiva alla fine della giornata operativa dalla
ricezione da parte del prestatore del servizio; mentre la disponibilità decorre non appena tale
importo è accreditato sul conto del prestatore medesimo; per il pagatore, non può precedere
la giornata lavorativa dell’addebito.
Fino al 1.1.2012, i contratti possono prevedere, per la disponibilità, termini di esecuzione
diversi, di massimo 4 giorni per le disposizioni su cartaceo e massimo 3 giorni per le
disposizioni telematiche.
Norme che privano ex lege del proprio denaro per un certo numero di giorni, e di parte di esso
(gli interessi) definitivamente.
Si chiede pertanto voglia il G.I., ritenuta la non manifesta infondatezza della questione di
illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e
117 della Costituzione:
-1) del comma 01, 1, 1 bis e 3 dell’art. 120, del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (in
Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230): «Testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia», come modificato:
–dagli artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del
decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21, 22, e 23
del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11,
–nonché come modificato e rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 13
agosto 2010, n. 141, quest’ultimo come modificato dall’articolo 3, comma 3, e art. 4, comma 1,
del decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218,
-2) degli stessi artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 – lo si ripete – modificato dall’articolo 8,
comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12
luglio 2011), 21 22, e 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, stante il rinvio ad essi
contenuto dall’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385,

rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti
i termini e i motivi della istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospenda il giudizio ordinando che, a cura
della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale sia notificata
alle parti in causa e al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, al
Presidente del Consiglio dei ministri, e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, con
l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.

-3) ANATOCISMO. ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELLA CAPITALIZZAZIONE DEGLI
INTERESSI PASSIVI QUAND’ANCHE PRATICATA PURE PER GLI INTERESSI ATTIVI OVE NON SIA
PARIFICATA ANCHE L’ENTITA’ QUANTITATIVA DEL TASSO ATTIVO E DI QUELLO PASSIVO.
Non c’è dubbio che la Corte Costituzionale si sia già pronunziata, con sentenza n. 341 del
12/10/2007, in tema di anatocismo, sulla questione di legittimità dell’art. 25, comma 2 del
decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342, sollevata dal Tribunale di Catania.
Sennonché la questione di illegittimità che qui si sottopone all’attenzione del Giudicante esula
da quella già sottoposta e decisa sia dal punto di vista dei profili di illegittimità sollevati che
da quello delle motivazioni del rigetto della Corte Costituzionale.
La questione esaminata e decisa dalla Corte C. attiene infatti al solo tema della legittimità o
no dell’anatocismo in presenza della sua applicazione sia al passivo che all’attivo.
È però incredibilmente sfuggito non solo al remittente Tribunale e quindi alla Corte
Costituzionale, ma a tutta la giurisprudenza di ogni grado e stadio, ciò che salta agli occhi di
ogni cittadino, ovvero che c’è un altro aspetto del problema oltre quello esaminato dalla
sentenza della 341 della CC: un aspetto essenziale: ovvero quella della determinazione
quantitativa dei tassi attivi e passivi prima che si possa parlare di una loro parificazione.
Così come è sfuggito che andava precisato nelle norme che, perché si possa parlare di
parificazione, occorre anche che il cliente abbia situazioni attive e passive paritetiche,
altrimenti manca il termine di paragone, il polo opposto, perché il concetto di parificazione
possa esplicarsi.
Una volta cioè stabilita la legittimità del criterio di applicare l’anatocismo sia al passivo che
all’attivo, occorreva però premettere che la parificazione doveva implicare la parità
quantitativa del tasso attivo e passivo nonché l’esistenza di un pari attivo e passivo, salvo a
non voler legittimare una frode: la frode che, appunto, in virtù di questa singolare omissione
normativa e giurisprudenziale, le banche stanno perpetuando in danno dell’intera società.
Ne deriva pertanto che, nella parte in cui, ai fini della legittimazione della capitalizzazione
trimestrale dei tassi, non specificano la necessità, perché sussista parificazione, che i tassi
attivi e quelli passivi siano uguali, nonché che sussista anche un pari attivo a cui applicare il
pari tasso, non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per
violazione degli artt. 70, 76, 77, 2, 3, 24, 41, 47, 102 e 117 della Costituzione:
-1) del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 – in Suppl. ordinario n. 92 alla
Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) – come
modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CICR
stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste
in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto
corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia
debitori sia creditori».
e
dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio
(CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione
di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e
finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto
legislativo n. 342/1999)» che statuisce:
«Conto corrente.

1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le
periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime
modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio
degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se
contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la
capitalizzazione periodica».
Tale illegittima normativa è in realtà conseguita alla pronuncia da parte della
Corte di Cassazione di una serie di sentenze conformi (Cass. 16.3.1999, n. 2374,
Cass. 30.3.1999, n. 3096, Cass. 11.11.1999, n. 12507, e altre) con le quali ha
dichiarato illegittima la prassi della capitalizzazione trimestrale degli interessi
passivi nel conto corrente bancario, per violazione dell’art. 1283 cc, sull’assunto
che essa prassi «si basa su di un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma
consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi».
Ne è derivato che il legislatore, per consentire alle banche di sottrarsi agli effetti
dell’orientamento della Cassazione, ha varato il citato DL n. 342/99, con il quale ha intenso
– appunto mediante l’omettere il riferimento alla necessità che l’entità del tasso attivo e
passivo fossero uguali e che sussistesse un attivo pari al passivo – ‘salvare’ le inique clausole
contrattuali in tema di anatocismo sia nel periodo anteriore al DL, sia in quello successivo
intercorrente tra il DL e l’emanazione del provvedimento di attuazione da parte del CICR,
introducendo una regolamentazione legislativa in un settore fin lì affidato alla
regolamentazione pattizia riproduttiva di quella consuetudinaria.
Il legislatore, quindi, anziché legiferare secondo l’orientamento giurisprudenziale rivolto a
tutelare i cittadini, soggetti deboli nel settore creditizio, ha effettuato un intervento rivolto ad
aggravare lo ‘sbilanciamento’ degli opposti interessi in campo.
È stato insomma ‘rimosso’ dal quadro normativo e giurisprudenziale il dato di comunissima
esperienza e conoscenza che non vi può essere parificazione se non vi è parità del tasso attivo
e di quello passivo e se non vi è una pari somma all’attivo o al passivo, senza contare che in
realtà c’è quasi sempre solo passivo (Dimenticanza? Stupidità istituzionale? Collusione
culturale? O che altro?).
In pratica – senza certo mettere in dubbio l’adamantinità delle intenzioni di nessuno – siamo
di fronte a un indegno disegno per svenare la società a vantaggio della banche.
E ciò, si osservi, nell’ambito di una normativa e di una giurisprudenza – costituzionale e non
– falsamente colte e forbite ma in realtà di un’ignoranza e di un oscurantismo medievale, con
tutto il rispetto per il medioevo, che in realtà produsse cose di grande rilevanza e bellezza.
Incolte e ottuse, la giurisprudenza e la normativa, perché nessun sembra capire che per di più
non è dovuto alle banche alcun interesse, visto che, come nell’esempio che questo difensore
reitera in ogni sede da 25 anni, se tizio da a Caio un assegno da 1.000 euro il primo gennaio e
Caio lo versa dieci minuti dopo a Tizio i mille euro vengono stornati subito e a Caio vengono
accreditati, se tutto va bene, dopo i 3 giorni ora illegittimamente stabiliti (in realtà, specie in
passato, anche 10, 20 giorni): giorni durante i quali gli interessi andranno alla banca che non è
stata mai proprietaria dei soldi.
Cosa che concreta poi il «signoraggio secondario»: un’attività criminale che le banche
praticano sotto l’occhio vigile della magistratura e che può essere risolta appunto con la
parificazione quantitativa dei tassi attivi e di quelli passivi in modo che gli interessi vadano ai
proprietari dei soldi, nonché allo Stato in relazione ai prestiti frutto del moltiplicatore
monetario.
Cose che la magistratura non può continuare a non capire, altrimenti nemmeno l’accusa di
incultura e ottusità basterà più a spiegare tanta resistenza, perché a tutto c’è un limite, e qui
il limite è stato superato da molto tempo, perché è inutile strapparsi le vesti sulla crisi della
società, ma aver poi concorso e continuare tanto attivamente a causarla.

Ma vediamo in dettaglio il perché di tanto sdegno quantificando l’ammontare della truffa
frutto della norma in questione.
Ebbene, dall’entrata in vigore della delibera CICR (22.4.2000) al 31.12.2010, il tasso attivo
medio è stato dell’0,87%, mentre il tasso passivo medio è stato del 10,08% + lo 0,81%
trimestrale, e quindi il 3,24% annuo (0,81 x 4 = 3,24), di commissione di massimo scoperto
(CSM), ovvero, complessivamente, del 13,32%, per cui c’è stata una differenza tra attivi e
passivi del 12,45% (13,32 – 0,87 = 12,45).
Una differenza che ha avuto – ogni 100.000 euro – le conseguenze economiche riprodotte di
seguito.
Al tasso attivo dello 0,87%, dal 22.4.2000 al 31.12.2010:
-100.000 euro attivi hanno fruttato al cliente, senza anatocismo, 9.570 €;
-100.000 euro attivi hanno fruttato al cliente, con l’anatocismo, 9.997 €;
-ovvero un guadagno per il cliente di 427 euro in dieci anni.
Invece, al tasso passivo del 13,32%,
-100.000 euro passivi, senza anatocismo, sono costati al cliente, 146.720 €;
-100.000 euro passivi, con l’anatocismo, sono costati al cliente, 350.296 €;
ovvero un guadagno per la banca di 203.576 € in dieci anni.
Il che significa che le banche pagando, ogni dieci anni, su ogni 100.000 € attivi, 427 euro in
più, si sono conquistate, con l’avallo della magistratura, il ‘diritto’ di truffare agli
italiani, 203.576 euro di interessi passivi in più.
E questa sarebbe la giustizia per garantire la quale siedono sui loro scranni gli Onorevoli
Signori Giudici della Corte Costituzionale?
E stiamo parlando degli interessi in più ogni 100.000 euro di affidamenti. Ma qual’è la cifra
globale dei prestiti in questi dieci anni?
Fermo restando che il vero crimine, quello sul quale non si sa perché la giustizia tace, è che la
banca lucri interessi passivi, anatocistici o non, su soldi non suoi (signoraggio secondario).
Cifre immani che spiegano l’immane dispiegamento di mezzi mediatici, giudiziari e politici
usati come diversivi per consentire una simile frode in danno della società.
Evidenziato quindi che quanto qui si vuole indicare come anticostituzionale non ha nulla a che
vedere con ciò di cui la Corte argomenta nella sua sentenza in tema di anatocismo ex art. 25,
c. 2°, del decreto legislativo n. 342, riprendiamo il discorso in termini più formali, senza che
però la sostanza dei problemi debba mai sfuggire, perché troppe volte i virtuosismi
formalistici sono funzionali a fini omissivi o rivolti a finalità non meritevoli di tutela.
Ciò detto, non è manifestamente infondata, per profili diversi da quelli esaminati dalla Corte
Costituzionale, la questione di legittimità della normativa in questione laddove, nello stabilire
che la modalità e i criteri di produzione degli interessi sono legittimi purché sia assicurata la
stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori, non dispone però che
il tasso degli interessi attivi e passivi debba essere uguale, e che inoltre il criterio della
parificazione deve implicare che il cliente abbia anche partite attive di pari importo alle quali
poter applicare la altrimenti astratta parificazione.
Illegittimità, lo si ripete, di cui il Tribunale di Catania non ha dubitato e sulla quale la Corte
Costituzionale non si è fin qui pronunziata.
Fermo restando che la Corte Costituzionale – lo si adduce per mera completezza storica
benché non rilevi continuare a ribadirlo – è giunta a conclusioni che comunque indignano.
Come quando, in relazione alla questione della contrarietà all’art. 3 C. per la diversità di
trattamento derivante dalla diversa disciplina applicabile ai contratti di conto corrente
stipulati prima o dopo l’entrata in vigore della delibera del CICR, nega che vi sia violazione del
principio di eguaglianza o di ragionevolezza adducendo che il fluire del tempo costituisce un
elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche e giustifica la disparità di trattamento.
Una rilevanza del tempo trascorso che la sentenza Corte della Costituzionale n. 341/07 si
limita ad affermare al fine di rendere legittima la norma impugnata, senza però spiegare
perché né in che senso il tempo avrebbe – in quel particolare caso – prodotto quel non meno
particolare effetto.

Un argomento, quello della rilevanza del tempo trascorso, che la CC usa in realtà, come
vedremo meglio di seguito (ma è un arrampicarsi sugli specchi), per spiegare come mai abbia
cambiato orientamento rispetto alla sua stessa sentenza n. 425/2000, nella quale, in analoga
fattispecie e in antitesi a quanto sostiene nella 341/07, aveva ritenuto al contrario per nulla
invincibile quella necessità di piegarsi alla normativa europea sulla quale fonda la 341/07.
Cioè a dire: anche in occasione della sentenza 425/2000, sulla legittimità del comma 3
dell’art. 25 del d.lgsl 342/99, la Corte Costituzionale, nel decidere sulla completezza e
regolarità della legge delega, aveva richiamato i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 18
della direttiva del Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989. In quel caso però il
risultato era stato opposto a quello di cui alla 341/07.
È ben vero, cioè, che le due sentenze intervengono su normative vigenti al tempo differenti,
ma il fatto che nella 425/2000 vi sono stati tanto pochi ostacoli a disattendere la direttiva del
Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989 quanti nella 341/2007 ve ne sono stati
per applicarla, non può essere attribuito alle blande motivazioni accampate, ma solo all’avere
il potere bancario ormai preso il sopravvento in ogni dove.
La Corte Costituzionale, insomma, per giustificare il suo cambiamento di orientamento
rispetto alla 425/2000, si limita ad illuminarci, nella 341/2007, sulla circostanza che «il fluire
del tempo costituisce un elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche»: principio di ordine
generale indubbiamente condivisibile, ma non si addentra poi nel merito del perché mai, in
questa fattispecie, da dopo il 9 febbraio 2000, l’influsso del tempo possa aver giustificato che
le banche abbiano – d’un subito – diritto di violare impunemente il principio di
ragionevolezza, di tutela della dignità individuale, del risparmio, dell’iniziativa economica,
della proprietà, dell’affidamento, della certezza del diritto eccetera.
Un argomento, quello del tempo, al quale questo difensore è molto sensibile, tant’è che, nel
1989, in L’atto di citazione già pronto per coloro che vogliano fare causa alla loro banca, ebbe a
scrivere:
«Fa osservare al Tribunale che ogni ritardo gioverebbe alla convenuta banca e pregiudicherebbe
invece gli interessi dell’attore, perché il decorso del tempo va considerato, non come un generico
elemento di disfunzione, ma come un elemento sostanziale dei diritti di cui si chiede l’attuazione e, per
altri versi, come uno degli strumenti fondamentali nell’uso dei quali ogni convenuto riottoso
sistematicamente si specializza per continuare a essere indifferente alla giustizia».
Un argomento quindi – il tempo – che la Corte, a giudicare dalla durata che continuano ad
avere le cause, non hai mai preso in seria considerazione dal punto di vista della necessità di
intervenire adeguatamente perché durino meno, ma usa oggi in favore di quelle pratiche filo-
bancarie contro le quali tutto il paese grida il suo disprezzo e la sua rabbia.
Rabbia resa impotente dalle insufficienze e dalle gravi anomalia della giustizia, perché,
sempre in tema di grandi principi, come questo difensore ha scritto per anni sull’intestazione
dei suoi atti giudiziari: «Se la civiltà è figlia del controllo, la disfunzione della giustizia civile e
amministrativa è necessariamente la madre dell’attuale stato delle cose».
Banche, in pratica, di cui solo la magistratura, oltre naturalmente che la politica e i media,
continuano a condividere i metodi, perché – se non li avessero condivisi – avrebbero avuto il
potere di fermarle in un attimo.
Un tempo che, in definitiva, dall’angolazione di questo difensore, rileva solo, in questo caso,
dal punto di vista del tempo che la giustizia in generale e la Corte Costituzionale in particolare
sta facendo perdere alla società italiana per poter recuperare i crediti verso le banche e
causare quell’effetto regolatore della società che è tipico solo della giustizia civile.
Infatti, che il potere legislativo possa effettuare, in virtù del decorso del tempo, scelte
politico-economiche nuove rispetto alle precedenti è indiscutibile.
Non meno indiscutibile è però anche che l’ordinanento giuridico è un complesso di norme
organicamente tutte volte a produrre il rispetto di una serie di principi cardine, funzionali
oltretutto a garantire la sopravvivenza dell’ordinamento stesso.
Un complesso di fondamentali norme che perché, da legittime che sono, possano divenire
illegittime, o irrilevanti, non è bastato il decorso dei millenni né degli immani eventi che nel
loro corso si sono succeduti, sicché non è dato capire cosa abbia ora tanto suggestionato la

Corte Costituzionale da farle sembra giustificabile che il diritto possa trasformarsi, in qualche
anno, in strumento per ledere così a fondo gli interessi della società.
Né sembrino sarcastiche le affermazioni di questo difensore perché ciò che è sarcastico sono
invece le affermazioni della Corte in quella sentenza.
Né meno offensiva per la nostra intelligenza è l’altra affermazione, pure contenuta nella
sentenza n. 341/07: quella secondo la quale non sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost.
per il diverso trattamento assicurato agli istituti di credito bancari rispetto agli altri operatori
non bancari del credito in quanto le posizioni dei due operatori del credito sarebbero
‘incomparabili’ data «la diversa natura dei soggetti con cui il rapporto è intrattenuto (in un caso
specificamente e professionalmente destinati allo svolgimento della funzione creditizia e alla
intermediazione finanziaria, nell’altro caso occasionalmente implicati in un rapporto obbligatorio
avente a oggetto una somma di danaro)».
Una motivazione grave anche questa perché prende in considerazione la differenza dal solo
punto di vista delle banche e degli altri ‘operatori’, e non anche dal punto di vista dei debitori,
senza curarsi che le differenze tra queste entità tutte da sottoporre a ben altri controlli e
vincoli di quelli attuali si abbattono poi sui debitori, sulla società, devastandoli.
Argomenti, quelle della CC, singolari e inadeguati, ma che hanno ciononostante fruttato alle
banche il mancato esame dell’aspetto fondamentale dell’art. 25,2, ovvero del fatto che esso
rafforza la loro posizione di soggetto vergognosamente dominante sui clienti e sui cittadini, e
che la norma impugnata incrementa il proliferare dei già altissimi interessi passivi a fronte di
interessi attivi risibili, ancorché ridicolmente ‘parificati’.
Aspetto, lo ribadiamo, quello della sostanza della ‘parificazione’, ovvero dell’entità dei tassi di
interesse, che esula dalla sentenza della Corte e che, eccoci a noi, è oggetto della questione di
costituzionalità che qui si solleva.
È ridondante infatti la qualità di giudici o di avvocati, bastando anche solo quella di cuochi o
falegnami, e insomma di cittadini comuni, per capire che sarebbe ragionevole parlare di
parificazione se gli interessi attivi e passivi fossero uguali, ma è anomalo sostenerlo ove siano
sperequati, per di più enormemente.
Una ‘parificazione’ che sembrerebbe essere fondata sul presupposto della stupidità dei
cittadini che la subiscono, ma è frutto invece dell’impotenza alla quale li si è condannati
sottraendogli ogni ricorso effettivo ex art 6 della CEDU, perché siamo ormai in una situazione
politica, mediatica e istituzionale consistente né più né meno che nel cedimento dei poteri, di
tutti i poteri, al potere bancario.
Poteri tra i quali un legislatore e una giustizia che – anche qui stranamente – sembrano non
sapere che, oggi più di ieri, la sottoscrizione da parte dei cittadini delle clausole bancarie, tra
cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi o di ogni altra competenza bancaria, non
è frutto di alcuna libera scelta contrattuale, ma dell’inevitabilità di doversi piegare a un
cartello che non è solo tra banche, perché coinvolge tutto e tutti quelli di cui le banche hanno
avuto bisogno per mettere in piedi il loro folle progetto: folle perché così ampio che stanno
causando la scomparsa di un contesto nel quale poter spendere i benefici che continuano a
conseguire.
Argomentazioni, quelle di cui alla sentenza n. 341/07 in ordine alla regolarità e al rispetto da
parte dell’art. 25 d. lgsl 342/99 dei limiti e dei requisiti della normazione secondaria, basate
poi anche su un’ulteriore motivazione evasiva e in contrasto con la 425/2000, sempre della
CC.
Sostiene infatti la CC che l’art. 25,2 d.lgs. 342/99 va letto alla luce del contenuto dell’art. 1,5
della legge delegante n. 128/88 che, a sua volta, disponeva che il Governo emanasse
disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 385/93 alla luce dei principi e criteri direttivi
contenuti nell’art. 25 legge 19 febbraio 1992, n. 142;
Norma quest’ultima che conteneva due distinte deleghe, volte all’adeguamento del nostro
ordinamento all’art. 18 della direttiva del Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre
1989, che formulava il principio di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi da
parte degli enti creditizi nell’ambito di ogni Stato membro.

Dimentica però la CC che la negazione dei profili di illegittimità di cui alla 341/07 cozza con la
n. 425/2000, con la quale pure si era espressa sull’illegittimità costituzionale del comma 3
dell’art. 25 del d.lgsl 342/99.
A prescindere infatti che in tanto preteso e impettito formalismo, bisognerebbe che qualcuno
iniziasse finalmente a dire che il Parlamento europeo è un falso parlamento, in cui i deputati
non hanno potere di iniziava legislativa, mentre il Parlamento stesso non ha il potere di
promulgare le leggi che vota, perché questo potere è nelle mani della Commissione e del
Consiglio, e tutti sono nelle mani della burocrazia che è al soldo delle lobby, non è comunque
dato capire come mai la necessità di adeguarsi alla citata normativa europea non è stata
ritenuta – lo si ripete – così invincibile quando, con la 425/2000, ha negato l’applicabilità
retroattiva della disciplina sull’anatocismo per i contratti bancari già in essere prima della
entrata in vigore della CICR.
Cioè a dire: anche in occasione della decisione sulla legittimità costituzionale del comma 3
dell’art. 25 del d.lgsl 342/99, nel decidere sulla completezza e regolarità della legge delega, la
CC aveva richiamato i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 18 della direttiva del Consiglio
Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989.
In quel caso però il risultato era stato opposto.
Lì, infatti, la CC, limitatamente al comma 3, così scriveva:
«Come già detto, invero, con l’art. 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998, si conferì delega al
Governo per l’emanazione di “disposizioni integrative e correttive” del testo unico bancario,
richiamando espressamente i principi e criteri direttivi indicati nell’art. 25 della legge n. 142 del 1992,
in attuazione dei quali vennero emanati dapprima il decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481 (che
recepiva e adattava al contesto italiano la surrichiamata direttiva 89/646/CEE) e poi il decreto
legislativo n. 385 del 1993. Quest’ultimo, oltre a recepire a sua volta i contenuti del decreto legislativo
n. 481 del 1992, riordinava organicamente l’assetto della materia bancaria e creditizia, con un testo
unico di natura ‘normativa’ e non già meramente ‘compilatoria': così da caratterizzarsi come
disciplina attuativa di quella direttiva comunitaria e, allo stesso tempo, come legge di grande riforma
economico-sociale (v. sentenze n. 49 del 1999 e n. 224 del 1994). Ma, per quanto ampiamente
possano interpretarsi le finalità di “integrazione e correzione” perseguite dal legislatore delegante,
nonché i princìpi e criteri direttivi posti a base del testo unico bancario, è certamente da escludersi che
la suddetta delega legittimi una disciplina retroattiva e genericamente validante, sia pure
nell’esercizio del potere di armonizzazione di tale testo unico con il resto della normativa di settore».

Visto, in sostanza, che la sentenza 425/2000 della Corte Costituzionale non lascia dubbi circa
il fatto che la delega non possa legittimare «una disciplina retroattiva e genericamente
validante», viene da chiedersi come mai ciò diviene legittimo con la 341/2007.
Un quesito che non può trovare risposte di natura giuridiche, meno che mai se le si volesse
giustificare in virtù del fattore ‘tempo’, e deve invece essere necessariamente legato allo
stringersi sempre più del cappio del potere bancario europeo, perché purtroppo, stante il
potere legislativo nullo del Parlamento europeo, lo si voglia ammettere o no, la BCE –
un’incredibile entità di proprietà privata, appartenente per il 15% alla Banca d’Italia, i cui
maggiori ‘azionisti’ sono come è noto Banca Intesa, San Paolo, Credito Italiano eccetera – è,
nei fatti, il vero legislatore europeo.
Con la conseguenza che, per proprietà transitiva, se lo Stato italiano e gli Stati europei sono al
servizio delle banche, lo sono per forza di cose anche le magistrature europee e quella italiana.
Magistratura italiana che quindi, nel rispondere allo Stato, risponde in realtà a Banca Intesa,
San Paolo eccetera: entità tutte giammai deputate ad alcuna forma di governo del paese da
nessuno, ma aduse da sempre a una totale acquiescenza dei poteri ai loro voleri.
Argomenti che non devono stupire in un atto giudiziario, dovendo invece stupire il contrario:
ovvero la finzione – un’eterna, integralistica finzione – che tutto ciò non sia.
Questi i fatti. Fatti che, altrettanto evidentemente, sconsigliano una visione troppo
semplicistica dell’europeismo.

Una visione che oltretutto si scontrerebbe con le profonde differenze che esistono tra i regimi
bancari europei.
Un’Europa nella quale ci sono paesi, come il Belgio, di cui questo difensore ha fatto a suo
tempo qualche esperienza in quanto deputato europeo.
Un regime bancario, quello belga, che certamente partecipa anch’esso dei crimini del
signoraggio bancario primario e secondario, ma è ispirato, dal punto di vista dei costi, a visioni
profondamente diverse da quelle italiane: caratterizzare da logiche di sistematico
taglieggiamento, usura e violenta prevaricazione.
Anche qui, in definitiva, a voler ‘parificare’ i sistemi, dovremmo esportare la smodatezza
furiosa dell’esosità, fraudolenza e prevaricatorietà bancaria italiana.
Svolto quindi il tema della sia pur qui irrilevante non esaustività, inadeguatezza e incoerenza
della della 341/2077 della Corte Costituzionale sulla questione di illegittimità dell’25, c. 2°,
decreto legislativo 04/08/1999, n. 342, veniamo – prima di entrare nel merito delle già
anticipate e in parte svolte questioni di illegittimità che qui si vogliono prospettare – a un
breve excursus sugli interventi normativi e giurisprudenziali che hanno regolamentato nel
corso degli anni l’anatocismo.
Fondamentale è naturalmente l’art. 1283 c.c., che recita:
«In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della
domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di
interessi dovuti almeno per sei mesi».
La Corte di Cassazione, quindi, mutando il suo precedente orientamento, a partire dalla
sentenza n. 2374 del 16/3/1999 (vedi Cass. Civ. n. 3096/99, 3845/9912507/99; 6263/01;
1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03), aveva affermato che la capitalizzazione
trimestrale era illegittima perché contraria all’art. 1283 c.c. in quanto tale pratica non
rispondeva ai requisiti dell’uso normativo ex artt. 1 e 8 delle preleggi, ma si inquadrava nella
fattispecie dell’uso negoziale ex art. 1340 cc, con la conseguenza che necessitava, per la sua
validità, della sussistenza, non soltanto dell’elemento oggettivo (il c.d. usus, ossia la
ripetizione costante, generalizzata e uniforme di un determinato comportamento), ma anche
dell’elemento soggettivo (l’opinio juris ac necessitatis, ossia la convinzione della giuridicità del
comportamento), non ritenuto sussistente.
Un mutamento di orientamento della Cassazione che ha causato numerose azioni legali specie
dei titolari di conto corrente contro le banche per la declaratoria della nullità parziale dei
contratti bancari in parte qua e per la ripetizione dell’indebito oggettivo.
Ecco allora che, con anomalo tempismo, è sceso in campo il ‘legislatore’ il quale, con il D.Lgs
342\4.8.99, da un lato, ha tentato di legittimare ex post le clausole anatocistiche, divenute
nulle data la nuova giurisprudenza, e dall’altro ha disciplinato la capitalizzazione degli
interessi per i contratti a venire.
In tale provvedimento – contenente una serie di modifiche e integrazioni al TUB, e
costituente attuazione dell’art. 1,5 L. 24.4.98, n. 128 – il Governo inseriva infatti, all’art.
25, una disposizione che, da una parte, prevedeva la possibilità di pattuire la capitalizzazione
per il futuro secondo modalità la cui determinazione veniva rimessa ad apposita delibera del
CICR, con il limite della necessità di garantire la medesima periodicità del meccanismo di
capitalizzazione sia con riguardo agli interessi passivi sia con riguardo agli interessi attivi; e
dall’altra riconosceva piena validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione trimestrale
stipulate nel periodo pregresso al decreto, salvo l’obbligo del loro adeguamento a quanto
stabilito dal CICR nella medesima Delibera di cui sopra.
La CC, con la già richiamata sentenza 17.11.2000 n. 425, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 co. 3 D. Lgs. 342/99, in riferimento all’art.
76 Cost., adducendo che la legge delega autorizzava il Governo a emanare una
disciplina integrativa e correttiva del TUB, ma non una sanatoria con efficacia
retroattiva, capace di rendere valide clausole nulle per contrarietà a norme
imperative contenute nel codice civile.

La Consulta ha sostanzialmente cristallizzato le conclusioni della Cassazione
(l’anatocismo è illegittimo fino all’entrata in vigore della delibera CICR del 2000;
resta ferma la possibilità di pattuire, successivamente alla delibera del 2000,
valide clausole di capitalizzazione degli interessi, ma senza efficacia retroattiva: le
somme corrisposte dal correntista a titolo di interesse anatocistici in base a
clausole contenute in contratti stipulati antecedentemente alla delibera medesima
– o peggio ancora applicate dalle banche richiamandosi all’uso negoziale ex art.
1340 cc – devono essere restituite dalle banche).
Come già anticipato, la richiamata sentenza della CC ha però investito solo alcuni aspetti della
legittimità o illegittimità costituzionale dell’anatocismo e ciò è a maggior ragione illegittimo
se si considera che la disciplina dei conti correnti stipulati successivamente alla delibera del
CICR del 2000 costituisce una normativa speciale e derogatoria rispetto all’art. 1283 cc.
È da censurare quindi che le banche, a far data da aprile 2000, data in cui è stata introdotta la
capitalizzazione trimestrale anche dei tassi attivi, hanno applicato una forma di
capitalizzazione trimestrale sia ai tassi attivi che a quelli passivi, con la giustificazione formale
di essersi adeguate alla nuova disciplina, ma di fatto eludendola, in quanto hanno continuato
ad applicare tassi attivi vicini allo zero e tassi passivi elevatissimi, che è l’aspetto
incredibilmente sfuggito alla disamina della Corte Costituzionale e oggetto della presente
azione, perché bisogna porre rimedio alla sorprendete mancata attenzione generale su questo
punto.
Non si può infatti consentire che le banche aggirino l’ostacolo dell’illegittimità dell’anatocismo
ricorrendo al sistema di applicare la trimestralità anche agli interessi attivi senza però
pareggiare la misura del tasso attivo e quello passivo.
Ci si troverebbe altrimenti di fronte al falso proposito di bilanciare degli assetti economici e
normativi ma in realtà ad una violazione dello spirito e dei principi ispiratori dell’ordinamento.
Né si può (sempre in tema di finzioni) fingere di dimenticare o comunque non
considerare che la sottoscrizione da parte dei clienti della clausola relativa alla
capitalizzazione degli interessi non è certo il frutto di una libera scelta
contrattuale.
Si finge cioè (una finzione istituzionale) che basti assicurare all’attivo e al passivo la ‘stessa
periodicità’ nel ritmo meramente temporale di accumulo degli interessi al capitale.
Ma, per cominciare, siamo di fronte ad atti e calcoli predisposti unilateralmente, a cura delle
banche, in moduli stampati in conformità con le direttive impartite dall’associazione di
categoria senza alcuna negoziazione individuale e in una situazione di grave squilibrio tra
banche e correntisti.
La clausola della capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori alti e dei bassissimi
interessi creditori è cioè imposta quale presupposto indefettibile per accedere ai servizi
bancari, e non vi è altra alternativa, per il cliente, che il prendere o il lasciare (altro che
adesione spontanea o condivisa, cristallizzatasi nel corso degli anni!)
L’utenze, cioè, sa di non avere alcuna alternativa di accesso al sistema creditizio, connotato da
accordi di ‘cartello’ e dalla regola del ‘prendere o lasciare’.
contratti bancari sono infatti stipulati attraverso moduli o formulari (contratti per adesione ex
art. 1342 c.c.) unilateralmente predisposti dalle banche, senza alcuna trattativa tra le parti e
senza alcun potere di negoziazione per il cliente.
La valenza contrattuale del patto ex art. 1372 c.c. (il contratto ha forza di legge tra le parti)
può essere invece raggiunta solo se vi sia per il cliente la possibilità di accettare o rifiutare le
condizioni previamente stabilite dalla controparte.
La norma in questione non essendo coerente agli artt. 70, 76, 77, 3, 24, 41, 47, 102, 111 Cost.
è quindi in contrasto con svariati principi, tra cui quello di eguaglianza, ragionevolezza, e di
diritto alla difesa.
Anche dopo l’emanazione del decreto legislativo 342/99 e della delibera CICR del 9/02/2000,
è nulla per illegittimità costituzionale la sottoscrizione da parte di un correntista della clausola

circa la capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi e passivi senza però la previsione che i
tassi passivi e attivi devono essere uguali, e che vi devono essere pari somme all’attivo e al
passivo su cui applicare quei pari tassi.
Non è pertanto manifestamente infondata – laddove non stabiliscono che la capitalizzazione
trimestrale è legittima al passivo purché anche all’attivo sia applicata con analogo tasso e
purché sussista un attivo di pari importo al quale poter applicare quel pari tasso – la
questione di illegittimità costituzionale del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385
– in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia) – come modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo
4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli
interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in
ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa
periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori».
e
dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio
(CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione
di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e
finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto
legislativo n. 342/1999)» che statuisce:
«Conto corrente.
1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le
periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime
modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio
degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente
stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica».
Ciò stante il contrasto con la Costituzione agli:
-ARTT. 70, 76 e 77, dove disciplinano la delega della funzione legislativa al Governo, ovvero
allo:
-art. 70, dove dispone che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere.
-art. 76, dove dispone che l’esercizio della funzione legislativa non può essere
delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e
soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
-art. 77, dove dispone che il Governo non può, senza delegazione delle Camere,
emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria e che, quando, in casi
straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità,
provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la
conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinque giorni, e che i decreti perdono efficacia sin dall’inizio se
non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
L’art. 76 della Costituzione, infatti, nel disciplinare il potere legislativo accordato al Governo
tramite delegazione delle Camere, dispone che tale potere può essere esercitato unicamente
con «determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti
definiti». È pertanto necessario che – affinché sia rispettato il disposto di tale articolo – la
legge delegante contenga i limiti che legittimano il processo formativo della delega legislativa.
La Legge delega n. 128, del 24 aprile 1998, all’art. 1, c. 5, con riferimento alla competenza
attribuita al decreto legislativo in esame, così solamente ed esclusivamente aveva stabilito:
«Il Governo è delegato a emanare, entro il termine di cui al comma 1, e con le modalità di cui ai commi
2 e 3, disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 1^ settembre 1993, n. 385, e successive

modificazioni, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l’osservanza della procedura indicati
nell’art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142».
Sussiste quindi una prima palese violazione dell’art. 76 Cost. perché l’art. 25 d. lgs. 342/99 ha
ecceduto i limiti segnati dalla L. 128/98 e si è concretizzato in un eccesso di delega (ultra vel
extra vel contra).
Il Governo ha cioè provveduto, attraverso il primo comma dell’articolo contestato, a
demandare – senza averne facoltà – al CICR la disciplina delle modalità e i criteri per la
produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie. Ha dunque sub
delegato a un organo diverso e non specificato la regolamentazione di una parte del contenuto
per cui aveva avuto la delega a legiferare.
La potestà normativa del CICR, composto da vari ministeri e con la partecipazione del
Governatore della Banca d’Italia, non può invece essere esercitata autonomamente dettando
soluzioni a problemi interpretativi che attengono a norme civilistiche, quali l’art. 1283 cc.
È da escludere che la delega contemplasse una possibilità come quella di stabilire una
parificazione che non si estendesse però all’entità del tasso passivo e attivo da applicare o che
non prevedesse l’esistenza all’attivo e al passivo di pari somme alle quali applicare il pari
tasso. Una possibilità che non può collocarsi nell’ambito delle competenze del CICR.
Il contrasto con l’art. 76, estrinsecandosi in primis in un eccesso rispetto alla delega conferita,
coinvolge indirettamente anche l’art. 77 C. laddove al primo comma stabilisce l’impossibilità
per il Governo di esercitare la funzione legislativa senza la delega delle Camere. Violazione
questa che si verifica oltre che nell’ipotesi di assenza di delega, anche nel caso in cui si
eccedano i limiti di quella conferita, oltrepassando – come nell’ipotesi dell’art. 25 con la
previsione di una sub delega – i principi e i criteri direttivi stabiliti nella legge delegante.
Oltre all’eccesso di delega – sempre in relazione all’istituzione di un tipo di parificazione che
potesse essere considerata tale anche in presenza di un tasso attivo e uno passivo di diversa
entità e in assenza di pari somme all’attivo e al passivo – si ravvisa nell’art. 25 un’ulteriore
violazione ai principi di cui all’art. 76 perché il suo contenuto è in contrasto con norme alle
quali la legge delega non aveva autorizzato a derogare, come l’art. 1283 cc.
Infatti, al di là del tentativo – poi sventato – fatto con il d. lgs. 342/99 di disporre la
sanatoria dell’anatocismo per i contratti in essere e per quelli stipulati sino alla data della
delibera del CICR, si sottolinea che il decreto legislativo adotta una soluzione difforme rispetto
alla disciplina di cui al 1283 c.c.
Ora, il decreto legislativo, in quanto atto avente forza di legge, può abrogare disposizioni di
legge imperativa, ma è inammissibile un’abrogazione implicita, che esuli dalle direttive della
legge delega e che non sia dalla stessa né prevista né autorizzata.
Inoltre la L. 128/98, art. 2, lett. e, nel dettare i criteri e principi direttivi generali della delega
legislativa di cui all’art. 76 Cost., dispone che «all’attuazione di direttive che modificano
precedenti direttive già attuate con legge o decreto legislativo si provvederà, se la modificazione non
comporta ampliamento della materia regolata, apportando le corrispondenti modifiche alla legge o al
decreto legislativo di attuazione della direttiva di modifica».
È evidente che un decreto legislativo che intervenga sul contenuto di una norma civilistica
quale l’art. 1283 cc imponendo un concetto di ‘parificazione’ addirittura in contrasto con la
realtà tra tassi passivi elevatissimi e tassi attivi infimi certamente realizza una modificazione
della materia regolata eccedendo la delega ricevuta, così come proibito dalla Legge n. 128/98.
-ART. 2, dove si dispone l’inviolabilità dei diritti e l’inderogabilità della solidarietà
economica, perché riconoscere legittimità a una norma che consenta di sottoscrivere
validamente la clausola della capitalizzazione trimestrale degli interessi considerando
parificati gli interessi passivi e quelli attivi nonostante siano di entità di gran lunga diversa
equivarrebbe a formalizzare la violazione di ogni diritto e principio di solidarietà economica,
essendo – si auspica – i diritti e la solidarietà incompatibili con il ‘garantire’ che le banche
possano perpetuare tali illeciti conseguendone un enorme quanto anch’esso illecito
arricchimento a fronte di un parallelo impoverimento dell’intera società.

ART. 3, dove, premessa la pari dignità dei cittadini, si indica tra i compiti della
Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli economici che limitano di fatto la
libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva
partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale, perché l’art. 25 d.
lgs. 342/99 introduce – quale irragionevole effetto di una ‘parificazione’ che non
tiene conto della diversità dell’entità dei tassi passivi e attivi e della sussitenza di
una pari somma all’attivo e al passivo – una diversa disciplina delle clausole sulla
capitalizzazione degli interessi passivi in ordine ai rapporti di conto sorti prima e
dopo l’emanazione della delibera delegata al CICR.
Una fortissima discriminazione che si estende poi anche al profilo soggettivo della norma,
ovvero alla differenza di trattamento assicurata alle banche a scapito dei cittadini così
garantendo – peraltro – una iper-tutela (forse degna di miglior causa) al soggetto forte
anziché al soggetto debole del rapporto contrattuale.
Violazione del principio di uguaglianza mediante l’art. 25 che implica poi la
violazione anche del principio di ragionevolezza: corollario del principio di
uguaglianza e limite al potere discrezionale del legislatore.
Nell’ipotesi in esame, ove il fine del legislatore fosse stato quello di integrare e correggere le
norme del TUB per eliminarne eventuali carenze o discordanze, sarebbe stato del tutto
irragionevole inserire disposizioni che, come l’art. 25, diano origine alle macroscopiche e
superflue discriminazioni sostanziali nell’entità dei tassi sopra delineate.
Sotto altro profilo vi è violazione dell’art. 3 della C. quanto ai principi di ragionevolezza ed
eguaglianza in rapporto all’art 1283 cc, che stabilisce il principio generale di divieto
dell’anatocismo, e l’art 2 della deliberazione CICR 9.2.2000 che, in deroga all’art 1283 cc,
laddove, nell’ammetterlo quando lo sia pratichi sia al passivo che all’attivo non si disponga,
per rendere reale la parificazione, che debba essere uguale anche l’entità dei tassi, trascurando
così che i tassi passivi sono stati, negli ultimi dieci anni, 16,44 volte multipli di quelli attivi
(13,32% quelli passivi e 0,81% quelli passivi).
-ART. 24, laddove prevede il diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi.
Le disparità di trattamento frutto della diversità quantitativa dei tassi all’attivo e al passivo
e/o della inesistenza all’attivo e al passivo di pari somme alle quali applicarli causano che l’art.
25 d. lgs. 342/99, oltre a violare il diritto di uguaglianza sostanziale dei cittadini dinanzi alla
legge, si ripercuota, di riflesso, anche sul diritto alla difesa di cui all’art. 24, laddove si dispone
la libertà a tutti riconosciuta all’azione giudiziale per la tutela dei propri diritti ed interessi.
Il disposto dell’art. 25 cioè, ammettendo per i contratti di conto corrente sottoscritti
successivamente all’entrata in vigore della delibera CICR del 2000 la legittimità della
capitalizzazione degli interessi nonostante la loro disparità, impedisce al correntista una sua
azione in giudizio volta a ottenere la ripetizione di quanto indebitamente versato in virtù della
periodica ripetuta capitalizzazione di interessi quantitativamente diversi.
Né il correntista può adeguatamente difendersi contro un istituto di credito che agisca
giudizialmente in virtù dell’ammissibilità dell’anatocismo pur in presenza di tassi diversi o in
assenza di pari somme all’attivo e al passivo, vedendo la propria posizione pregiudicata
rispetto a quella della banca, favorita dall’art. 25.
Anche con riferimento alla violazione dell’art. 24 Cost. si verifica un contrasto con
il principio di ragionevolezza, dal momento che lo scopo perseguito dal decreto
legislativo – integrazioni e correzioni al Testo Unico bancario – non legittima una
discriminazione del diritto di difesa.
–ART. 41, dove dispone che: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché

l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini
sociali»;
-ART. 47, dove dispone che: «La repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le
sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del
risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al
diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
La norma in oggetto, infatti, nel disporre un’equiparazione che non tiene conto del
quantum del tasso attivo e passivo e della presenza di somme pari all’attivo e al
passivo, legittima un tipo di iniziativa economica privata in nettissimo contrasto
con l’utilità sociale e che arreca danni enormi alla sicurezza, alla libertà e alla
dignità umana perché ha travolto l’economia togliendo alla società i mezzi
economici per realizzare alcuna sicurezza, libertà o dignità al sol fine di dirottare
illecitamente a vantaggio delle banche i profitti dell’operare sociale ovvero – in
antitesi a quanto voluto dall’art. 41 e 47 – gran parte del denaro che è circolato
dalla sua entrata in vigore.
-ART. 102, dove stabilisce le funzioni e fissa il principio di integrità delle attribuzioni
costituzionali dell’autorità giudiziaria.
-ART. 117, dove, anche con riferimento all’ordinamento comunitario (in ispecie
l’art 6 CEDU), non consente al Legislatore di interferire nell’amministrazione della
Giustizia.
Quanto all’art. 102, il legislatore non può infatti modificare l’ordinamento imponendo un tipo
di parificazione materialmente impossibile al solo scopo di bloccare un orientamento
giurisprudenziale sgradito a un particolare soggetto sociale: le banche.
Quanto all’117, primo comma, è violato anche in relazione all’art. 6 della
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955, n.
848.
Sempre in relazione all’impossibile parificazione del tasso attivo e passivo quando siano di
diversa entità, va evidenziato che l’art. 6 della CEDU, nel sancire il diritto a un giusto processo
dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato
contraente, nell’interpretazione della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire
nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una
determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla
disposizione interpretata un significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso
di «ragioni imperative d’interesse generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato, ricorrendo a una falsa parificazione, una norma
interpretativa favorevole alle banche con l’intento di eludere così un orientamento della Corte
di Cassazione, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili
nella fattispecie «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la
violazione del divieto d’ingerenza.
L’intervento normativo è stato effettuato per realizzare una finalità di parte, e non certo per
l’esigenza di disciplinare situazioni che lo richiedessero, e si concreta quindi in un’opera rivolta
– attraverso una falsa parificazione – a sottrarre le banche all’avanzare di una giurisprudenza
ad esse sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente illegittima e
sempre più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.

Si solleva quindi – laddove non stabiliscono che qualunque forma di ‘parificazione’ in
relazione al periodo e alla modalità di calcolo degli interessi attivi e passivi deve prevedere,
per essere legittima, la parità del tasso di interesse attivo e passivo e la sussitenza di somme

pari all’attivo e al passivo – la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt.
70, 76, 77, 2, 3, 24, 41, 47, 102 e 117 della Costituzione, da parte:
-1) del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 – in Suppl. ordinario n. 92 alla
Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) – come
modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CICR
stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste
in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto
corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia
debitori sia creditori».
e
dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio
(CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione
di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e
finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto
legislativo n. 342/1999)» che statuisce:
«Conto corrente.
1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e
con le periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo
le medesime modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio
degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente
stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica».
Si chiede in conseguenza che il G.I., sospeso il processo ed emesso ogni provvedimento
inerente opportuno e consequenziale, voglia sollevare la suesposta questione di illegittimità
costituzionale e rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con
la quale, riferiti i termini ed i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la questione,
disponga l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale ordinando che, a cura
della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata,
quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico
Ministero nonché al Presidente del Consiglio dei ministri con comunicazione dell’ordinanza
anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e con l’emissione di ogni ulteriore
provvedimento opportuno e conseguenziale.

-4) ILLEGITTIMITA’ DELL’Innalzamento del tasso USURAIO.
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione
degli artt. 2, 3, 24, 41,42, 47, 102 e 117 della Costituzione, dell’art 8, comma 5, lett. d, decreto
legge 13 maggio 2011, n. 70, (in Gazz. Uff., 13 maggio 2011, n. 110), titolato «Decreto
convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106. – Semestre Europeo – Prime disposizioni
urgenti per l’economia», convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106:, che
stabilisce: «all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, le parole: “aumentato della
metà.” sono sostituite dalle seguenti: “aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori
quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto
punti percentuali».
La legge 7.3.96, n. 108 (Disposizioni in materia di usura), stabilisce (stabiliva) infatti che il
tasso è usurario quando supera di oltre il 50% i tassi medi per settore.
Sennonché è intervenuto il decreto legge del 13 maggio 2011, n. 70, c.d. «decreto sviluppo»,
convertito nella legge 12.7.2011, n. 106, che ha modificato il metodo di calcolo del «tasso
soglia» o «tasso di usura», precedentemente disciplinato dall’articolo 2, comma 4, legge
108/1996.
«Decreto sviluppo» che ha alzato la soglia del tasso di usura con conseguenze gravissime,
visto che le banche si mantenevano – e solo in virtù di gravi artifizi – sotto il «tasso soglia»,
per cui è automatico ora il principiare di una strategia di innalzamento silente dei tassi.

In sostituzione del criterio di cui alla vecchia legge n. 108/1996, la nuova, truffaldina norma
ha previsto due criteri, il primo dei quali è (incredibilmente in una norma) solo rivolto a
generare confusione per fare apparire la norma meno grave di quello che è.
Secondo infatti il primo criterio (quello ‘fumogeno’) si ha usura quando il tasso medio sia
superato del 25% + 4 punti.
Si ha invece usura in base al secondo criterio (quello che conta) quando il tasso medio sia
superato di 8 punti.
Due criteri che giocano in maniere diverse secondo l’entità del tasso, salvo che il primo gioca
in relazione a tassi molto elevati che esistono solo nella prassi dei crediti al consumo.
Per fare però l’esempio che interessa il maggior numero di italiani, nei mutui a tasso variabile,
ora (ottobre 2011) in media del 2,79%, prima, per verificarsi l’usura, la banca doveva praticare
il 4,18%, ora invece il 10,79%.
Tutto ciò allo scopo evidente e notorio di evitare alle banche le sempre più numerose
condanne per usura, e per consentir loro, ora che non c’è più il baluardo del ‘tasso soglia’, il
predetto aumento strisciante del costo del denaro (in pratica un legislatore dedito agli
interessi privati).
(‘Fumogeno’, uno dei due criteri, perché, se il tasso medio fosse ad esempio del 20%, con la
legge vecchia il tasso usuraio sarebbe del 30%, mentre, con il primo criterio della legge nuova,
sarebbe del 29% (20 + 5 + 4 = 29), ma con i ‘benefici’ frutto del secondo, del 28% (20 + 8 =
28). Si è voluta insomma dare la sensazione che, in certi casi – in presenza cioè di tassi medi
che investono un coacervo di somme complessive minore, quali certi prestiti al consumo – vi
sia un vantaggio, laddove quello che si è inteso in realtà fare è stato innalzare il tasso usuraio
in relazione al grosso dei finanziamenti, e cioè in relazione ai mutui e agli affidamenti in
conto corrente.)
Una norma fatta ovviamente non per gli usurai ‘normali’ i quali, secondo i tassi che praticano,
possono o no esserne avvantaggiati, ma in favore delle banche.
Una norma ancor più grave di quel che sembra perché l’usura rappresenta la forma estrema
del signoraggio secondario, che è già di per sé un crimine di straordinaria gravità, anzi il più
grave dei crimini.
Le banche infatti non hanno alcun diritto agli interessi che pure incassano da sempre.
La banca, cioè, presta denaro non suo, e non c’è nessuna ragione giuridica perché gli interessi
non debbano andare ai proprietari dei soldi.
Ripetendo concetti già molte volte svolti, se Tizio dà a Caio un assegno di 1.000 euro il primo
gennaio e Caio lo versa immediatamente presso la sua banca, a Tizio i 1.000 euro saranno
stornati immediatamente, e a Caio saranno accreditati nel migliore dei casi dopo 3 o 4 giorni.
Giorni di ‘intervallo’ durante i quali i 1.000 euro frutteranno interessi al sistema bancario, che
non è mai stato proprietario dei soldi.
Più analiticamente, se Tizio versa su una banca 100.000 euro, essa banca tratterrà il 2% circa
come riserva, e presterà il 98% che, una volta depositato in un’altra banca, di nuovo, a
cascata, sarà prestato al 98% all’infinito.
Finché, non la singola banca, ma il sistema bancario, attraverso un giro di prestiti di un
importo ogni volta più basso del 2%, avrà azzerato i 100.000 euro iniziali, ma avrà incassato
gli interessi su prestiti per 5.000.000.
Un usare 50 volte sempre lo stesso denaro che serve a monetizzare la società, ma serve poi
alle banche per imporre illecitamente interessi su ognuno di questi prestiti di denaro altrui,
per i quali hanno diritto solo a dei compensi per il servizio (che già riscuotono) dovendo gli
interessi andare ai proprietari del denaro.
Un gravissimo sistema che è poi (si consenta la digressione) ciò da cui discende l’attuale
anch’esso illecito sistema fiscale, perché la sua principale funzione è costringere i cittadini a
finanziare l’‘acquisto’ (in realtà non è né un acquisto né un prestito né uno ‘sconto’, ma solo
un volgare crimine) delle banconote da parte dello Stato (che già gli appartengono) presso le
banche centrali (signoraggio primario), sicché, in sostanza, il fisco serve a raccogliere,
attraverso le imposte e tasse, denaro già inverato (oppure titoli corrispondenti) da usare per il
pagamento del denaro da ‘comprare’ (inverare/coprire). Tasse e imposte che non serviranno

più quando lo Stato non dovrà più ‘comprare’ il denaro, ma lo stamperà e se lo farà
pagare\coprire\inverare dalla collettività con beni o servizi corrispettivi. Un sistema in cui può
credo bastare un’unica imposta (potremmo definirla la «generale») da pagarsi – senza
compensazioni tra dare e avere – sui consumi di beni o servizi. Meccanismi fraudolenti che,
tra signoraggio primario e secondario, processi inflattivi a loro vantaggio, tasse evase e
fiscalità illecita, sversa fiumi di denaro nelle banche, la cui esistenza è quindi basata su denaro
accumulato nel tempo illecitamente.
Un sistema rispetto al quale la magistratura non può continuare ad addurre – incredibilmente
– di non avere giurisdizione perché si tratta di una serie mostruosa di volgari crimini, uno più
grave dell’altro, e la tesi che la giustizia non abbia giurisdizione in materia di crimini sarebbe
originale se non fosse raggelante.
Orbene, è in questo bel quadro, come se non bastasse, che il signoraggio secondario, ovvero
questo lucrare interessi cinquantuplicati sui prestiti di denaro altrui, viene per di più spinto
alle sue estreme conseguenze mediante l’usura, che è sinonimo di «signoraggio secondario
usuraio».
In pratica, già il di per sé il signoraggio secondario è un crimine. Ad esso – con la nuova
norma – si aggiunge poi che il tasso sul denaro altrui (un tasso da signoraggio, un tasso non
dovuto, un tasso estorto con la compiacenza dei poteri) viene portato alle estreme
conseguenze innalzando il tasso soglia.
Non è difficile osservare a questo punto come la norma impugnata – nel punto in cui
addirittura rende legittimo, senza alcuna motivazione degna di considerazione, il tasso (già di
per sé illegittimo) che era fin qui considerato usuraio, aggravando ulteriormente l’estremistico
sfruttamento della società da parte delle banche – confligge con ogni articolo della
Costituzione e, in particolare:
Con l’art. 1, perché svuota di ogni (residuo) contenuto l’asserzione che l’Italia sia una
Repubblica democratica fondata sul lavoro, o che la sovranità appartiene al popolo, perché fa
sì che il paese sia di fatto una dittatura delle banche fondata sulla collusione dei poteri in
danno della collettività.
Con l’art. 2, perché vanifica l’affermazione che la Repubblica riconosca e garantisca i diritti
inviolabili dell’uomo e richieda l’adempimento (non lo richiede certo alle banche) dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Con l’art. 3, perché, ben lungi dal garantire alcuna dignità e uguaglianza, fa sì che i cittadini
siano uguali solo nel non avere alcun ricorso effettivo contro le mostruose prevaricazioni
bancarie.
Con l’art. 4, perché toglie significato al diritto al lavoro e rende anzi sempre più difficili le
condizioni per la sua attuazione.
Con l’art. 24 perché la norma in questione inibisce l’azione giudiziaria per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi e rende inefficace l’azione difensiva.
Con l’art. 35 perché la Repubblica è ostacolata da questa legge nel tutelare il lavoro, perché le
risorse pubbliche è private vengono in gran parte sottratte indebitamente dalle banche.
Con l’art. 41, perché la norma in oggetto consente alle banche di operare – così come vietato
– in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Con l’art. 42, perché questa norma incide gravemente sulla proprietà privata dei cittadini e
delle Istituzioni, non sussistendo soggetti che non siano vittima dell’operato delle banche.
Con l’art. 47, dove prevede che «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue
forme; disciplina e controlla l’esercizio del credito», perché tale norma, al contrario, distrugge
il risparmio e consente l’esercizio delle forme di credito più arbitrarie e lesive.
Con gli artt. 102 e 117 primo comma, violato anche in relazione all’art. 6 della Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU),
ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955, n. 848.
Ciò perché l’art. 6 della CEDU, nel sancire il diritto a un giusto processo dinanzi ad un
tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente,
nell’interpretazione della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire
nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una

determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla
disposizione interpretata un significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso
di «ragioni imperative d’interesse generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato una norma interpretativa favorevole alle banche
nonostante un orientamento della Corte di Cassazione non favorevole alle banche, così
violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili nella
fattispecie «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione
del divieto d’ingerenza.
Sempre più numerose erano infatti negli ultimi anni le sentenze di merito, e soprattutto della
Cassazione, che dichiaravano l’illegittimità dei criteri di calcolo della soglia c.d. usura indicati
nelle numerose circolari della Banca d’Italia, in quanto era basato su una interpretazione
sbagliata della legge n. 108/96.
Tali pronunce giurisprudenziali avevano finalmente chiarito che la commissione di massimo
scoperto andava conteggiata insieme a tutti gli altri oneri del conto ai fini della verifica del
superamento del tasso soglia ex lege 108/96.
In tale senso si legga quanto stabilito dalla Corte di Cassazione penale sez. II in data 19
febbraio 2010 n. 12028 «Ai fini della determinazione della fattispecie di usura, il chiaro tenore
letterale dell’art. 644, comma 4, c.p. impone di considerare rilevanti tutti gli oneri che un utente
sopporti in connessione con il suo uso del credito; tra essi rientra la commissione di massimo scoperto,
trattandosi di un costo collegato all’erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente
utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l’onere, a cui
l’intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a
disposizione del cliente ».
Nello stesso senso si legga anche Cassazione penale sez. II del 14 maggio 2010 n.
28743: «Nella determinazione del tasso di interesse, ai fini di verificare se sia stato posto in essere il
delitto di usura, occorre tener conto, ove il rapporto finanziario rilevante sia con un istituto di credito,
di tutti gli oneri imposti all’utente in connessione con l’utilizzazione del credito, e quindi anche della
“commissione di massimo scoperto”, che è costo indiscutibilmente legato all’erogazione del credito».
Ebbene, naturalmente in tali procedimenti giurisdizionali che adottavano la corretta
interpretazione della legge c.d. ‘antiusura’ venivano inevitabilmente riscontrati superamenti
da parte della banca dei c.d. tassi soglia.
Ciò rischiava di suscitare un contenzioso contro le banche da parte dei numerosissimi clienti a
cui erano stati applicati tassi tassi di interesse usurai, ma risultati fin lì ‘legittimi’ a causa
dell’errore nella interpretazione della legge antiusura.
A questo punto e in tale contesto giurisprudenziale si inserisce il ‘tempestivo’ intervento del
legislatore, che ha risolto il problema (alle banche) alzando il tasso soglia.
Gli interventi normativi di cui si evidenzia l’incostituzionalità, in sostanza, non sono stati
causati dall’esigenza o dall’intento di disciplinare una situazione che lo richiedesse, ma sono
invece frutto di una palese opera lobbistica rivolta a sottrarre le banche all’avanzare di una
giurisprudenza a esse sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente
illecita e sempre più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.
Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale dell’art 8, comma 5, lett. d, decreto
legge 13 maggio 2011, n. 70, (in Gazz. Uff., 13 maggio 2011, n. 110), convertito, con
modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106, titolato: «Semestre Europeo. Prime disposizioni
urgenti per l’economia.», che stabilisce: «all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108,
le parole: “aumentato della metà.” sono sostituite dalle seguenti: “aumentato di un quarto, cui si
aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio
non può essere superiore a otto punti percentuali», per violazione degli artt. 2, 3, 24, 41,42, 47,
102 e 117 della Costituzione.
Si chiede in conseguenza che il G. I., previa sospensione del processo e l’emissione di ogni
ulteriore provvedimento inerente opportuno e consequenziale, voglia sollevare la suesposta
questione di illegittimità costituzionale e rinviarla alla Corte costituzionale con emissione di
ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi dell’istanza con cui la questione è stata
sollevata, disponga la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospenda il giudizio in

corso ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale sia notificata alle parti in causa e al Pubblico Ministero, quando il suo
intervento sia obbligatorio, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento, con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e
conseguenziale.

-5) ILLEGITTIMITA’ DELLA RI-INTRODUZIONE DELLA COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO.
Non è manifestamente infondatezza la questione di illegittimità costituzionale – per
violazione degli artt. 2, 3, 41, 47 della Costituzione – dell’art 1, all. 1, legge 28.1.2009, n. 2 (in
Suppl. ordinario n. 14, alla Gazz. Uff., 28.1.2009, n. 22), titolata: «Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185», nella parte in cui ha introdotto l’art
2 bis, comma 1, nel decreto legge 29 novembre 2008 n. 185, articolo poi modificato (il detto 2
bis, comma 1, DL. 185\2008) dall’art. 2, comma 2, del D.L. 01\07\2009, n. 78 (convertito,
quest’ultimo DL, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102), illegittimo nella parte in
cui esso 2 bis, comma 1 («Ulteriori disposizioni concernenti contratti bancari»), ha disposto
legittimamente che:
«Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto»,
proseguendo poi però specificando illegittimamente che:
«se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a
fronte di utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono
una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente
titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che
prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata
dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a
disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme
effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e
proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente, e sia specificatamente
evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo
utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni
momento. L’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non
può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità
del patto di remunerazione. Il Ministro dell’economia e delle finanze assicura, con propri
provvedimenti, la vigilanza sull’osservanza delle prescrizioni del presente articolo».
Orbene, con l’art. 1, all. 1, legge 28.1.2009, n. 2, che ha introdotta l’art. 2 bis, comma 1, del
decreto legge n. 185, del 2008, il nostro legislatore, indifferente allo stridente contrasto con il
clamoroso superamento giurisprudenziale della commissione di massimo scoperto, la
reintroduce imponendola per legge per di più incrementandone il costo.
Sennonché la norma che l’ha introdotta è illegittima, per cominciare, per gli stessi motivi per i
quali la giurisprudenza ha già variamente qualificato illegittima la cms.
La cms, cioè, si giustificava – ma solo secondo le banche – perché la banca che concede un
‘fido’ deve predisporre una disponibilità finanziaria, indipendentemente dall’effettivo
prelevamento, e veniva applicata sia nelle aperture di credito in conto corrente che negli
affidamenti occasionali, quali scoperti e sconfinamenti senza fido.
Nell’art. 7,3 delle NUB (norme bancarie uniformi ), la cms era solo citata, ma non disciplinata,
ed era infatti affidata ai «criteri concordati con il correntista o usualmente praticati dalle banche
sulla piazza con le valute indicate nei documenti contabili o comunque negli estratti conto».
La circolare del 3.2. 1995 dell’ABI, nel dettare le nuove norme per i contratti di corrispondenza
e servizi connessi, prevedeva (quale simulacro della possibilità per il cliente di ‘concordare’
l’entità della cms) che nell’intestazione della proposta contrattuale predisposta per il cliente
fosse previsto uno spazio per l’indicazione del suo ammontare.
Le Istruzioni della Banca d’Italia precedenti al 2009, alla sez. I, C/5, intitolata Metodologia di
calcolo della percentuale della commissione di massimo scoperto, illustravano: «Tale commissione
nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare
l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione

nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso — che di norma viene applicato allorché il saldo
del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni — viene calcolato in misura
percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento».
In sostanza un’assurdità che ha acuito, alla fine, i dubbi della giurisprudenza circa la sua
legittimità.
Un’assurdità perché la cms è nulla per mancanza di causa, visto che si sostanzia in un ulteriore
illegittimo addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente previsti per
l’utilizzo dell’apertura di credito.
Una situazione in cui sono divenute sempre più numerose le sentenze che condannavano gli
istituti di credito alla sua restituzione considerandola priva di una legittima causa petendi e
frutto di un incremento surrettizio del tasso di interesse passivo pattuito e come negozio in
frode alla legge.
Ragioni per cui infine, anche il Governatore della privata organizzazione illecita abusivamente
denominata Banca d’Italia, il 31.5.2008, espresse l’auspicio che si procedesse alla sua
sostituzione («un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza»), con «una commissione
commisurata alla dimensione del fido accordato».
Buon ultimo, anche il presidente dell’Antitrust, il 24.6.2008, nella Relazione annuale
afferma: «Va affrontato il tema della commissione di massimo scoperto», definendola «prassi
iniqua e penalizzante per i risparmiatori e per le imprese deve essere abolita».
Censure alle quali sono seguiti generalizzati interventi tardivamente moralizzatori (senza che
nessuno abbia però mai parlato di restituzione), tra cui quelli dell’Autorità Garante per la
Concorrenza.
Finché è intervenuto il ‘legislatore’ che, peraltro con piglio riformatorio, non fa invece altro
che reintrodurla e incrementarla.
La prima parte del comma 1, art. 2 bis, ribadisce infatti che la cms va calcolata sul picco del
credito effettivamente utilizzato dal cliente introducendo però due novità:
a) La fissazione ex lege del limite temporale minimo di 30 giorni di esposizione a
debito, mentre prima bastava anche un giorno, anzi un momento.
b) L’applicabilità solo ai contratti di apertura di credito e solo sul fido
effettivamente utilizzato nell’ambito dell’affidamento accordato, escludendo
quindi l’applicazione agli scoperti di conto corrente e agli sconfinamenti tollerati
dalla banca oltre l’ammontare dell’affidamento.
La seconda parte del comma 1 disciplina invece la provvigione d’affidamento («quale
corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme» e, dunque, indipendente
dall’utilizzo delle somme messe a disposizione), subordinandone la validità a varie condizioni
che non diminuiscono né l’illegittimo danno per il cliente né gli altrettanto illegittimi benefici
per le banche, ovvero stabilendo che il corrispettivo sia:
a) predeterminato unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate;
b) oggetto di patto scritto non rinnovabile tacitamente;
c) determinato in misura onnicomprensiva rispetto a ogni altra voce di costo;
d) determinato in misura proporzionale all’importo credito accordato ed alla durata
dell’affidamento richiesto dal cliente.
L’art. 2,2 d.lgs. 1 luglio 2009, n. 78 ha poi aggiunto, all’ultimo periodo del comma 1 dell’art.
2-bis decreto legge n. 2 del 2009, che il corrispettivo onnicomprensivo di cui al periodo
precedente non può comunque superare lo 0,5%, per trimestre, dell’importo dell’affidamento,
a pena di nullità del patto di remunerazione.
In sostanza, nel mentre la giurisprudenza e gli organi di vigilanza muovevano rilievi sempre
più critici miranti all’abolizione della cms, il ‘legislatore’, come nulla fosse, è intervenuto per
aumentarla.
La norma in esame cioè, al primo periodo dell’art. 2 bis, L. 28.1.2009, n. 2 (ex comma 1
dell’art. 2-bis d.l. 185/2008), ribadisce la cms in senso stretto così come praticata nella
precedente illegittima prassi bancaria, ma, al secondo e terzo periodo dello stesso comma,
introduce una remunerazione per la messa a disposizione dei fondi, che

qualifica «commissione di affidamento» o «commissione sull’accordato», proprio allo scopo di
distinguerla dalla cms in senso stretto.
Questioni tutte molto gravi e cariche di profili di non manifesta infondatezza della questione
di illegittimità costituzionale.
In particole l’art. 2 bis, decreto legge n. 185 del 2008, come modificato dall’art. 2, comma 2,
decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito in legge in legge n. 102 del 3/08/2009 viola la
Costituzione agli:
-ART. 2, dove riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e l’inderogabilità della solidarietà sociale ed
economica e di buona fede nell’art. 2 Cost., immanente all’intero ordinamento giuridico per
diritto vivente della Corte di Cassazione (Sez. Unite n. 26724 del 2007, Sez. 3, Sentenza n.
20106 del 2009).
Tale norma, infatti, in un periodo tra l’altro di grave crisi economica per le famiglie, per i
singoli cittadini e per il Paese nel suo complesso, fornisce agli istituti bancari strumenti
normativi, non solo per il mantenimento in vita, ma per l’aggravamento di istituti
pacificamente riconosciuti illegittimi e lesivi del risparmio e delle condizioni economiche,
perché è dimostrato anche da rilevazioni effettuate da istituzioni pubbliche (Commissione 6a
del Senato della Repubblica, AGCM ecc.) che tale normativa ha dato luogo a un incremento di
voci di costo in conto corrente e a un incremento del costo della ‘vecchia’ cms.
-ART. 3, dove, premessa la pari dignità dei cittadini, si indica tra i compiti della Repubblica
quello di rimuovere gli ostacoli economici che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e
impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione
politica, economica e sociale.
Principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge violato perché distingue la posizione
dei clienti rispetto a quella delle banche, favorendo un loro indebito arricchimento a scapito
dei clienti. Inoltre la possibilità, concessa dal punto 3, per le banche di adeguarsi
unilateralmente entro centocinquanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del decreto è espressione di un favor del legislatore in favore degli istituti di
credito e contro i correntisti, perché avrebbe richiesto quel giusto motivo indispensabile quale
requisito per le variazioni unilaterali delle condizioni di conto corrente, e anche ciò viola il
principio di uguaglianza sostanziale e di tutela del soggetto debole.
Censure fatte implicitamente proprie, con nota del 29.12.2009, anche dall’Autorità garante
della concorrenza e del mercato, secondo la quale: «sia per gli affidamenti che per gli scoperti
transitori di conto corrente, successivamente all’entrata in vigore dell’articolo 2-bis, comma 1, del D.L.
n. 185 del 2008, convertito con modificazioni in legge n. 2 del 2009, si è verificato un innalzamento
dei costi per i correntisti».
Violazione del principio di uguaglianza alla quale segue la violazione anche del principio di
ragionevolezza, che ne è corollario, perché la discrezionalità di cui il legislatore è dotato nel
dettare le norme trova appunto il suo limite nella loro ragionevolezza.
Il legislatore, cioè, di fronte alle sempre più numerose prese di posizione contro la cms,
avrebbe dovuto dichiararne illegittimità, non certo la legittimità allo scopo di conservare –
contro tutti – quel contestatissimo vantaggio alle banche. Condotta del legislatore che appare
quindi del tutto irragionevole anche sotto questo profilo.
-ART. 41, dove stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con
la utilità sociale e quando afferma che la proprietà privata e riconosciuta e garantita dalla
legge.
-ART. 47, dove si legge che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio e
disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.
La norma in questione, implicando una grave perdita consistente nell’aggravio della già
illegittima cms introduce una grave lesione del principio della tutela costituzionale del
risparmio e dell’iniziativa economica privata, dato l’irragionevole favore accordato alla pratica
oligopolistica e di cartello della cms, e mina così la stabilità dei prezzi nell’intero sistema
economico, erodendo l’entità del risparmio.

Finanche la Banca d’Italia (e tutto dire, visto che è di proprietà delle banche che ha qui
censurato), nei Risultati della rilevazione sulle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e
scoperti di conto, pubblicata il 13.2.2010, scrive:
«Considerando le segnalazioni delle singole banche, si osserva che in un numero non ridotto di casi il
passaggio dalle vecchie alla nuove previsioni contrattuali ha prodotto un peggioramento delle
condizioni per la clientela.
Ciò è vero, in particolare, per i conti non affidati delle famiglie (fig. 1): in media si registra
nei diversi scenari un peggioramento delle condizioni nel 29 per cento dei casi; in uno
scenario (il n. 5), contraddistinto da uno scoperto di importo contenuto (€ 300) per una
durata prolungata (30 giorni), nei tre quarti dei casi si osserva un peggioramento. Nel
caso dei conti affidati delle imprese i casi di peggioramento sono meno frequenti (12 per
cento in media).
Le poche banche che, già a fine 2008, non applicavano la CMS segnalano condizioni
tendenzialmente stabili sui conti non affidati, mentre l’introduzione di commissioni per la
messa a disposizione di fondi sui conti affidati ha determinato un incremento degli oneri
mediamente nel 30 per cento dei casi (fig. 2).

5. Conclusioni
Le variazioni contrattuali introdotte dalle banche a seguito degli interventi normativi hanno
comportato, in media, una diminuzione degli oneri per commissioni, sia per i conti non affidati sia,
soprattutto, per i conti affidati; peraltro, in un numero non ridotto di casi il passaggio dalla vecchia
alla nuova struttura commissionale ha prodotto un peggioramento delle condizioni per la clientela.
Nel complesso, i benefici netti per i correntisti potrebbero essere inferiori a quelli stimati
se compensati da incrementi nei tassi d’interesse e nelle voci generali di costo del conto
corrente.
Soprattutto per i conti non affidati, per i quali la legge ha sancito la nullità della
commissione di massimo scoperto, la varietà di commissioni introdotte in sua sostituzione
ha ridotto il grado di comparabilità del costo dello scoperto di conto».

xxxxx

Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli
artt. 2, 3, 41, 47 della Costituzione – dell’art 1, all. 1, della legge 28 gennaio 2009,
n. 2 (in Suppl. ordinario n. 14, alla Gazz. Uff., 28 gennaio, n. 22),
titolata: «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre
2008, n. 185», nella parte in cui ha introdotto l’art 2 bis, comma 1, nel decreto
legge 29 novembre 2008 n. 185, articolo (il detto 2 bis, comma 1, DL. 185\2008)
poi modificato dall’art. 2, comma 2, del D.L. 01\07\2009, n. 78 (convertito,
quest’ultimo DL, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102), illegittimo
limitatamente alla parte in cui (il 2 bis, comma 1: «Ulteriori disposizioni concernenti
contratti bancari»),
dopo aver legittimamente disposto che: «Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la
commissione di massimo scoperto»,
prosegue poi però specificando illegittimamente che:
«se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a
fronte di utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono
una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente
titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che
prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata

dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a
disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme
effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e
proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente, e sia specificatamente
evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo
utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni
momento. L’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non
può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità
del patto di remunerazione. Il Ministro dell’economia e delle finanze assicura, con propri
provvedimenti, la vigilanza sull’osservanza delle prescrizioni del presente articolo».

Si chiede in conseguenza che il GI, previa sospensione del processo e l’emissione di ogni
ulteriore provvedimento inerente, opportuno e consequenziale, voglia sollevare la predetta
questione di illegittimità costituzionale e rinviarla alla Corte costituzionale, con emissione di
ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la
questione, ordini che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale sia notificata, quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle
parti in causa, al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, al Presidente
del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

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