Ricorsi per anticostituzionalita’:
-1) dei decreti ingiuntivi in favore delle banche in base all’estratto conto;
-2) della decorrenza tardiva della valuta;
-3) dell’anatocismo, ovvero illegittimità della capitalizzazione degli interessi passivi quand’anche praticata pure per gli interessi attivi ove non sia parificata anche l’entità quantitativa del tasso attivo e di quello passivo;
-4) dell’innalzamento del tasso usuraio;
-5) della ri-introduzione della commissione di massimo scoperto. (I ricorsi risalgono al 26.10.2011, ma sono ancora attuali, anche in
relazione quello circa all’anatocismo, abrogato nel gennaio 2014, perché è utile per confutarlo nelle cause contro le banche, in relazione al passato).
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-1) INCOSTITUZIONALITA’ DEI DECRETI INGIUNTIVI IN FAVORE DELLE BANCHE IN BASE ALL’ESTRATTO CONTO.
Non sussiste manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della Costituzione – dell’articolo 50 del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 (in Suppl. ordinario n.92 alla Gazz. Uff., 30.9.73, n. 230), intitolato: «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», che recita: «La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il
decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
La possibilità per le banche di ricorrere per ottenere il decreto ingiuntivo in base al mero estratto conto (una ‘certificazione’ di parte) non può che basarsi su una normativa palesemente illegittima. Illegittimità costituzionale le cui motivazioni descriviamo di seguito, ma da tempo divenuta grottesca, vista la giurisprudenza da anni consolidata sull’illegittimità totale o parziale delle voci che compongono il saldo, quindi pacificamente errato a priori. Di talché, considerata la vastità dei fenomeni bancari, siamo di fronte a una piaga sociale su cui è urgente intervenga la Corte Costituzionale. Un’illegittimità che comunque sussiste dall’origine perché l’articolo 633 cpc – nel prevedere
che chi è creditore di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, può adire il giudice competente per l’ingiunzione di pagamento o per la consegna – richiede però, per la
concessione del provvedimento monitorio, che il credito azionato sia certo, liquido ed esigibile.
Ora, quanto alla liquidità, occorre che l’importo sia determinato nel suo ammontare o sia determinabile senza necessità di calcoli complessi, o comunque facilmente liquidabile in base a dati desumibili dalla documentazione prodotta dal creditore.
Quanto all’esigibilità occorre che il credito sia scaduto e non sottoposto a condizione o controprestazione, dovendo altrimenti il creditore fornire elementi anche solo indiziari per far presumere l’adempimento della controprestazione o l’avveramento della condizione.
Quanto infine alla certezza consiste nella necessità di prova scritta del credito azionato.
Prova scritta proveniente, non solo dal debitore, ma anche da un terzo, e che, sebbene priva di efficacia probatoria assoluta, venga ritenuta dal giudice atta a dimostrare l’esistenza del credito. Vi sono poi alcuni crediti che godono di forme di privilegio circa l’attendibilità di alcune certificazioni che li attestano, e tra essi, eccoci al punto, quelli bancari relativi ai conti correnti, che di questo regime privilegiato godono incostituzionalmente.
L’art. 50 del testo unico bancario (TUB: D.Lgsl 385/93) ha infatti introdotto illegittimamente una fattispecie ‘speciale’ (troppo speciale) di prova scritta ex art. cpc 633, comma 1, n.1. Secondo cioè l’art. 50 del D lgsl 385/93: «La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
Una norma variamente illegittima (scandalosa) perché introduce un tipo di prova scritta anomala e avulsa dal contesto di quelle elencate negli art. 634, 635, 636, 642 cpc. Scandalosa, anomala perché deroga né più né meno che al generale principio in virtù del quale non sono interpretabili quali prove in favore di una parte atti che essa stessa ha redatto.
Negli altri casi in cui è ammessa la sommarietà della cognizione di determinati tipi di credito, essa è in sostanza caratterizzata da una facile accertabilità basata sulla natura del credito, l’oggetto e la particolare attendibilità della prova offerta dal ricorrente.
Nel caso invece dell’estratto conto di cui all’art. 50 del TUB la sommarietà è (incredibilmente) basata sul riconoscimento alla banca di una fiducia certo non riscontrabile nella vox populi e comunque inspiegabile.
Una fattispecie, si osservi, quella ex art. 50 D.lgs. 385/93, nella quale addirittura non si richiede, per la formazione della prova scritta, nemmeno la partecipazione o la supervisione di un soggetto terzo: in pratica un’esagerazione; oltre che una violazione. Esigenza di terzietà alla quale quella sghemba norma vuole far fronte eleggendo a ‘controllore’ il dirigente della banca: un dipendente del creditore che certifica la certezza, liquidità ed esigibilità del saldo che servirà poi per il rilascio del decreto ingiuntivo..
Un privilegio catastrofico per la società: un esonero da ogni garanzia richiesta a chiunque e in qualunque caso. Catastrofico a maggior ragione nell’ambito del giudizio monitorio, disciplinato dagli artt. 633 e ss. cpc e rientrante nella più ampia categoria dei procedimenti
sommari non cautelari: provvisori e precostitutori dell’esito definitivo della controversia a seguito della mancata opposizione, e del suo rigetto. Una norma genocida, come del resto tutte le norme filo-bancarie, la cui spaventosa illegittimità è ulteriormente aggravata dalla ancor più spaventosa discrezionale tendenza a rilasciare il provvedimento sovente in forma provvisoriamente esecutiva ex art. 642 e 648 cpc: una esecutività incredibile a fronte di crediti che, come dicevamo, per giurisprudenza consolidata, risulteranno quasi sempre parzialmente, se non totalmente, inesistenti.
Una normativa che rende possibile da decenni la rovina tanto violenta quanto illegittima di milioni di persone mediante il mezzo ‘legale’ di decreti ingiuntivi fondati a volte sul nulla e quasi sempre su un saldo errato, e in ogni caso illeciti se si considera la questione del signoraggio primario e secondario, che per fortuna oggi (26.10.11), forse un po’ anche sotto la spinta delle carte di questo difensore,
inizia a emergere con le sue sembianze di più brutto dei mostri dal laido fango nel quale la pochezza e i biechi opportunismi dei poteri – da quello bancario a quelli politico, giudiziario, burocratico e mediatico – lo accudiscono da sempre in cambio dei privilegi e a scapito delle genti, difendendolo ancor oggi con una veemenza ottusa degna di miglior causa.
Art. 50 del TU che peraltro, in relazione all’estratto conto che la banca deve allegare al ricorso, non specifica l’arco di tempo che deve essere preso in considerazione, sicché, per di più, le ‘verifiche’ del direttore non si estendono ai numeri relativi ai periodi che la banca decide che si devono dare per buoni per atto di fede.
Un’assurdità perché è ovvio che il saldo è frutto di tutti movimenti, a partire dal primo, quand’anche il conto fosse vecchio di cent’anni.
Un’assurdità a maggior ragione se si considera che molte delle condizioni e delle competenze inserite nel conti correnti sono state legislativamente e giurisprudenzialmente riconosciute illegittime, oltre a essere illegittime costituzionalmente.
Disciplina ex art. 50 D. Lgs. 385/93 che risulta quindi in contrasto con i principi di cui agli artt. della Costituzione 1, 2, 3, 4, 24, 41, 47, 101 102, 104 e 117. In particolare con gli:
ART. 1, dove recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», in quanto di fatto tale normativa è espressione di una sovranità, non del popolo, ma delle banche.
ART. 2, dove recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La possibilità di eseguire illegittimamente i crediti tramite decreto ingiuntivo, a maggio ragione se esecutivo, pone infatti le banche in una posizione di grave privilegio nei confronti dei cittadini incidendo sulla vita sociale al punto da realizzare una molto anomala forma di sovranità di fatto, visto che il denaro è tecnicamente il corrispettivo di ogni bene. È ovvio cioè che nel momento in cui si sottopone l’intera collettività – perché non c’è cittadino che non sia in un modo o nell’altro in rapporto con le banche – ad un tale giogo, si realizza un trasferimento di sovranità in favore delle banche e una lesione del libero godimento dei diritti inviolabili delle persone.
Uno strumento processuale, quello di cui all’art. 50 D. LGS. 385/93, che privilegia – a scapito della garanzia e inviolabilità di ogni diritto – delle entità che, per di più, è conclamato lo esercitino in maniera aberrante.
ART. 4, dove recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società».
ART. 35, dove recita: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni».
Il diritto al lavoro può concretamente svilupparsi solo in base a un sistema economico giusto ed esente da privilegi che soffochino l’economia, altrimenti diviene un’astrazione, come appunto accade per effetto dell’art. 50 D. LGS. 385/93.
ART. 3, dove recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
L’art. 50 del TUB introduce un’inammissibile disparità di trattamento tra le banche e gli utenti del sistema bancario.
Viola anche il principio di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost.) perché si configura come una previsione ad hoc che, attraverso il previsto procedimento ‘semplificato’, si traduce in un mezzo dissuasivo della contestazione della fondatezza dei crediti vantati dalle banche. Ciò a maggior ragione in riferimento all’art. 24 Cost. in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., perché crea un notevole squilibrio processuale mediate il consentire la concessione del decreto ingiuntivo, magari esecutivo, senza bisogno di assolvere al preliminare onere di certezza e di prova del credito vantato, obbligatorio per tutti gli altri cittadini. Inoltre, anche in sede di giudizio a cognizione piena introdotto con l’atto di citazione in opposizione al decreto ingiuntivo, si configura, ai fini dell’ottenimento della sospensione ex art. 649 cpc della già concessa efficacia esecutiva, e a scapito del contraente debole, come una sostanziale inversione dell’onere dell’azione e
della prova a cui è gravoso e difficile ottemperare.
Sempre in relazione all’art. 3 Cost., peraltro, ove si dovesse poi ritenere legittima l’assurda disciplina in questione, ne deriverebbe il paradosso di doverla estendere anche agli operatori economici estranei al settore bancario, che non possono fin qui (fortunatamente) avvalersi della ‘corsia preferenziale’ introdotta dall’art. 50 D. LGS. 385/93.
ART 41, dove recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
L’Art. 47 Cost. dove recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
L’art. 50 TUB viola sia entrambe le norme che il loro combinato. Quanto al fondamentale art. 41 C., l’attuazione, in Italia come nel mondo, del principio in esso enunciato (principio in un modo o nell’altro necessariamente tipico di ogni Costituzione concepibile), avrebbe garantito uno sviluppo corretto di ogni forma di attività economica, e avrebbe impedito la trasformazione dell’economia nel fattore di crisi della vivibilità del pianeta, perché l’involuzione climatica e il guasto ambientale in generale sono appunto frutto della violazione sistematica di quel principio, ovvero della sistematica subordinazione dell’uomo all’economia, anziché dell’economia all’uomo (che è poi la definizione che questo avvocato dà del consumismo).
Un principio che – non è purtroppo un argomento di colore – è stato praticamente letto come se l’art. 41 recitasse che l’iniziativa economica privata «può svolgersi» (anziché «non può svolgersi») in contrasto con l’utilità sociale Un quadro nel quale l’influsso negativo dell’attività economica bancaria è stato enorme, anche nel senso che le banche hanno ‘messo alle strette’ le altre attività causando l’assottigliamento, o la scomparsa, dei margini, e quindi tendenze sistematicamente emergenziali che hanno favorito ogni degenerazione.
Un quadro nel quale il precetto di cui all’art. 47 ha un suono stridente, se si pensa a quanti soprusi, espoliazioni, abusi, violazioni ha subito dalle banche l’intera società in ogni forma di rapporti economici, perché la concessione di agevolazioni come quella di cui all’art. 50 del TUB innesca delle situazioni illegittime alle quali solo un’esigua parte dei cittadini riesce a reagire, e generalmente con scarso successo. Un quadro nel quale il combinato degli artt. 41 e 47 della C. è la sintesi dell’opposto di come vanno le cose bancarie. Un quadro nel quale è palese il contrasto tra la norma impugnata e il principio d tutela della proprietà e del risparmio privato. Una norma che consente dei provvedimenti monitori spesso provvisoriamente esecutivi basati su scritture dense di addebiti ingiusti e illegittimi ma
ciononostante adatti ad aggredire i beni del cittadino. Una violazione del diritto di proprietà privata attraverso uno strumento
processuale, il decreto ingiuntivo, che, inaudita altera parte, consente, nella fattispecie, di sottrarre al cliente i suoi beni sulla base di una documentazione di parte. Una pratica frutto solo di un gravissimo asservimento del potere legislativo alle banche, che, in oligopolio, in cartello, divorano il risparmio, distruggono le aziende, impoveriscono la società.
ART 24, dove recita: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», e art. 2697 cc.
In virtù dell’art. 50 TUB, la «prova scritta» richiesta dall’art. 633 cpc può essere costituita, nella fase monitoria, dall’esibizione dell’estratto conto certificato conforme alle scritture contabili da un dirigente della banca, considerato giustificativo dei credito, salvo dimostrazione dell’esistenza-consistenza dello stesso nella fase di cognizione piena che s’instaura con l’atto di opposizione: giudizio che soggiace alla regola dell’onere della prova ex art. 2697 cc, la quale incumbit ei qui dicit, sicché è la Banca creditrice opposta a dover dimostrare il perché della formazione del proprio credito e delle poste del debito in capo al correntista. Il procedimento di ingiunzione o di decreto ingiuntivo è un procedimento speciale di cognizione nel quale l’accertamento è sommario in quanto parziale e limitato alla prospettazione e\o alla sola prova scritta prodotta dal ricorrente, ma è comunque destinato a produrre un provvedimento suscettibile di passare in
giudicato, essendo impugnabile solo per revocazione o per opposizione di terzo nei limiti stabiliti dall’art. 656 cpc.
L’art. 50 TUB comporta, tra l’altro, una sproporzione notevole quanto ingiustificata tra le facoltà e gli oneri processuali probatori a carico dei correntisti e delle banche.
L’estratto conto, inoltre, si limita a indicare un dato numerico che non consente di per sé alcun controllo in ordine alle singole poste considerate né alle modalità dei conteggi compiuti, per cui si deve necessariamente ammettere che il debitore possa a sua volta limitarsi a negare il valore probatorio dell’atto attraverso una generica contestazione e pretendere l’esibizione di un’idonea documentazione
aggiuntiva. Proprio in questo senso si è recentemente pronunciata la Cassazione n. 9695, del 3.5.2011, accogliendo il ricorso di una società che aveva formulato un quesito sul diritto della banca a procedere a esecuzione forzata dei crediti scaturenti da contratti di conto corrente documentati con la produzione in giudizio «del solo estratto conto finale».
Secondo i giudici di legittimità, infatti, «deve escludersi l’idoneità probatoria dell’estratto di conto corrente» pur se certificato secondo le procedure previste dalla legge. Infatti, «… esso, in caso di contestazione, non può integrare di per sé prova a favore dell’azienda di credito dell’entità del credito, in quanto atto unilaterale proveniente dal creditore e dovendo ritenersi eccezionale la valenza probatoria ad esso riconosciuta ai fini del conseguimento del decreto ingiuntivo. E come tale non estensibile al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge».
Un’affermazione, quella della Cassazione, che non richiama direttamente l’incostituzionalità, ma costituisce una palese allusione ad essa, oltre che l’espressione di un’altrettanto palese malessere di fronte a una norma talmente
iniqua.
ARTT. 101, 102 e 104, 117,1, in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e della Liberta Fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4.8.1955, n. 848. Il legislatore delegato, nel disporre intenzionalmente al solo fine di facilitare le azioni delle banche contro i clienti su pretesi scoperti in conto corrente, ha violato la riserva ai magistrati della funzione giurisdizionale e leso la loro indipendenza e autonomia.
L’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che sancisce il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire, su una singola causa o su una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato
vantaggioso per una parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».
Il legislatore nazionale – pur in presenza del grande malessere sociale generato dalle condotte bancarie – ha invece emanato una norma interpretativa immotivatamente favorevole alle banche, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo prefigurabili quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
L’art. 50 d.lgs 385/93 consente infatti di «chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del cpc anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido», ovvero in base ad atti che non hanno alcuna valenza probatoria e in base a varie voci controverse (pacificamente truffaldine), come le commissioni di massimo scoperto trimestrali, l’addebito tardivo della valuta anche ben oltre i tre giorni fissati dalla nuova e comunque gravissima e illegittima normativa, e quindi la trasformazione trimestrale di tutto ciò in capitale produttivo a sua volta degli stessi anomali ‘frutti’ in un meccanismo diabolico di moltiplicazione del debito.
Una situazione a maggior ragione paradossale (specie poi in considerazione della natura di norma speciale del d.lgsl 385/93) di fronte a degli estratti conto che quando vengono opposti si rivelano sistematicamente errati. Per tali motivi va sollevata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della Costituzione – dell’articolo 50 del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 (in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.73, n. 230): «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», che recita: «La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
Si chiede in conseguenza che il GI, previa sospensione del processo e l’emissione di ogni ulteriore provvedimento inerente opportuno e conseguenziale, voglia sollevare la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 50 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e
rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata trasmissione degli atti e sospenda il giudizio in corso ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale sia notificata, salvo non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa e al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
-2) DECORRENZA ILLEGITTIMAMENTE TARDIVA DELLA VALUTA.
Non è manifestamente infondatezza, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale:
-1) del comma 01, 1, 1 bis e 3 dell’art. 120, del decreto legislativo n. 385, del 1 settembre 199 (in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230): «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», come modificato:
–dagli artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21, 22, e 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11,
–nonché come modificato e rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141, quest’ultimo come modificato dall’articolo 3, comma 3, e art. 4, comma 1, del decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218,
-2) degli stessi artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 – lo si ripete – modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21 22, e 23, stante il rinvio ad essi contenuto dall’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n 385.
Iniziamo, ordunque, con l’osservare che, nell’originaria formulazione, l’art. 120 D.lgs n. 385 del 1.9.1993, in vigore dall’1.1.1994, stabiliva solo che: «Gli interessi sui versamenti presso una banca di denaro, di assegni circolari emessi dalla stessa banca e di assegni bancari tratti sulla stessa succursale presso la quale viene effettuato il versamento sono conteggiati con la valuta del giorno in cui è effettuato il versamento e sono dovuti fino a quello del prelevamento».
Il caso dunque dei versamenti su altra banca o altra succursale non era disciplinato ed era affidato ad arbitrarie prassi dei vari istituti in virtù delle quali la valuta decorreva dopo un numero di giorni variabile secondo il tipo, la ‘piazza’ eccetera. Accredito tardivo della valuta illegittimo perché configura un’appropriazione indebita per gli interessi così non fatti maturare a vantaggio del cliente, nonché un artifizio e raggiro per gli interessi addirittura passivi creati ad arte e addebitati nei casi in cui la banca consente sì al cliente di prelevar immediatamente la somma di cui al titolo versato, che gli accrediterà tardivamente, ponendolo però per quell’importo in ‘scoperto di valuta’, e quindi sostanzialmente ‘prestandogli’, a corrispettivo di un tasso passivo, denaro suo (del cliente).
Illegittimo ritardo nell’accredito dei titoli che causa anche, quando si riesca con questi sistemi a rendere artificiosamente passivo il saldo, l’addebito di commissioni di massimo scoperto (CMS) e/o di maggiorazioni di tasso per ‘sconfinamenti’ inesistenti eccetera. Delle illegittime prassi di accredito tardivo – frutto di un materiale, e per ciò stesso insanabile, contrasto con i fatti – che stavano da ultimo incorrendo in sempre più frequenti censure giurisprudenziali, vista l’evidenza del fatto che il differimento dell’accredito della
somma comunque versata (in assegni o in qualunque altra maniera) è frutto di una frode Una frode perché, scriveva già nel 1987 questo avvocato in l’Atto di citazione già pronto per i correntisti che vogliano far causa alla propria banca: «Se Tizio dà un assegno di un milione di lire a Caio il primo gennaio, e Caio in quella stessa data lo versa, il milione continuerà a produrre interessi in ogni istante del suo esistere, e quindi anche durante i tre (o trenta) giorni in cui avrà smesso di produrne per Tizio e non avrà ancora iniziato a produrne per
Caio: tre giorni durante i quali produrrà cioè interessi per la banca nonostante essa non sia mai stata proprietaria della somma». Sennonché – a inutile riprova del potere di controllo delle banche sulle leggi – il ‘legislatore’ provvidamente interveniva in favore delle banche con due norme, la prima delle quali è l’art. 2 comma 1 del DL n. 78, del 1.7.2009 (Tremonti ter) convertito nella legge n. 102 del
3.8.2009, secondo il quale:
«A decorrere dal 1° novembre 2009, la data di valuta per il beneficiario per tutti i bonifici, gli assegni circolari e quelli bancari non può mai superare, rispettivamente, uno, uno e tre giorni lavorativi successivi alla data del versamento». Tale articolo sarà prima sostituito dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 11/2010 e poi abrogato dall’art. 6 comma 1 bis del decreto legislativo n. 141/2010 così come modificato dall’4 del decreto legislativo n. 218/2010. Successivamente, si è poi provveduto al Decreto Legislativo n. 11 del 27 gennaio 2010, che ha recepito nel nostro ordinamento la Direttiva Europea 2007/64/CE sui servizi di pagamento, meglio nota come PSD (Payment Services Directive).
Norme, specie quelle europee – non va mai dimenticato – in realtà emanazione della BCE: un’illecita organizzazione privata (nella sostanza una società per azioni, come pure la Banca d’Italia) dedita al crimine del signoraggio primario, e di proprietà delle banche private
che dovrebbe poi controllare, e che controlla invece le istituzioni europee tutte e il Parlamento europeo: un finto Parlamento, perché non ha il potere di promulgare le leggi che vota: un potere che è invece appannaggio della Commissione e del Consiglio, a loro volta al servizio delle lobby innanzitutto bancarie.
Un meccanismo perverso, tremendo, in cui le banche private proprietarie della BCE e delle altre banche centrali, attraverso esse, legiferano guidando la mano dei sedicenti legislatori del mondo intero, per di più, non solo nelle materie di loro diretto interesse, ma ormai
praticamente in tutti i campi. Una situazione i cui i responsabili – se ci sarà prima o poi una vera giustizia – saranno chiamati a rispondere penalmente e civilmente di fronte al mondo.
Ma, tornando al decreto n. 11/27.1.2010, esso è entrato in vigore secondo le tre seguenti scadenze:
-dal 1 marzo 2010 per i bonifici, le carte di credito/pagamento, pagamento bollettini, ecc.;
-dal 5 luglio 2010 per gli incassi commerciali (RID, RiBa, MAV, ecc.);
-a data da definirsi, da parte dello Stato, per i pagamenti da/verso la Pubblica Amministrazione centrale e periferica (es. F23, F24 Pensioni). Disciplina dei pagamenti modificata, in dettaglio, dall’art. 19 e segg. del d.lgis n. 11/2010, nei quali si legge quanto segue (che non si applica, però, ai pagamenti tramite assegno). «D.lgs 11, del 27.1.10, SEZIONE II
TEMPI DI ESECUZIONE E DATA VALUTA:
Art.19 (Ambito di applicazione)
–1. La presente sezione si applica:
a) alle operazioni di pagamento in euro;
b) alle operazioni di pagamento transfrontaliere che comportano un’unica conversione tra l’euro e la valuta ufficiale di uno Stato membro non appartenente all’area dell’euro, a condizione che esse abbiano luogo in euro e che la conversione valutaria abbia luogo nello Stato membro non appartenente all’area dell’euro.
–2. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2, la presente sezione è applicabile anche ad altre operazioni di pagamento, a meno che non sia diversamente convenuto dall’utilizzatore e dal prestatore di servizi di pagamento. Resta comunque ferma l’applicazione dell’articolo 23, che non può essere oggetto di deroga contrattuale. Quando le parti di un contratto di pagamento convengono un termine massimo di esecuzione superiore a quello di cui all’articolo 20, tale termine non può essere superiore a quattro giornate operative successive alla ricezione dell’ordine di pagamento.
Art.20 (Operazioni di pagamento su un conto di pagamento)
–1. Il prestatore di servizi di pagamento del pagatore assicura che dal momento della ricezione dell’ordine l’importo dell’operazione venga accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario entro la fine della giornata operativa successiva. Fino al 1° gennaio 2012 le parti di un contratto per la prestazione di servizi di pagamento possono concordare di applicare un termine di esecuzione diverso da quello previsto dal primo periodo ovvero di fare riferimento al termine indicato dalle regole stabilite per gli strumenti di pagamento dell’area unica dei pagamenti in euro che non può comunque essere superiore a tre giornate operative. Fino al 1° gennaio 2012, per le operazioni di pagamento disposte su supporto cartaceo, il termine massimo di cui al periodo precedente può essere prorogato di una ulteriore giornata operativa.
–2. Il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario applica la data valuta e rende disponibile l’importo dell’operazione di pagamento sul conto del beneficiario in conformità con quanto previsto dall’art. 23.
–3. Quando l’ordine di pagamento è disposto su iniziativa del beneficiario o per il suo tramite, il prestatore di servizi di pagamento di cu egli si avvale trasmette l’ordine al prestatore di servizi di pagamento del pagatore entro i limiti di tempo convenuti tra il beneficiario e il proprio prestatore di servizi di pagamento. Nel caso degli addebiti diretti, l’ordine viene trasmesso entro limiti di tempo che consentano il regolamento dell’operazione alla data di scadenza convenuta.
Art. 21 (Mancanza di un conto di pagamento del beneficiari presso il prestatore di servizi di pagamento)
1. Se il beneficiario non dispone di un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento che riceve i fondi, quest’ultimo mette i fondi ricevuti a disposizione del beneficiario entro il termine specificato ai sensi dell’articolo 20.
Art. 22 (Depositi versati in un conto di pagamento)
–1. Quando un utilizzatore versa contante su un conto di pagamento nella valuta in cui il conto è denominato, il prestatore di servizi di pagamento applica la data di ricezione dei fondi quale data valuta e rende disponibili i fondi immediatamente dopo la ricezione. Se
l’utilizzatore non è un consumatore, l’importo è reso disponibile e la valuta datata al pi tardi la giornata operativa successiva alla ricezione dei fondi.
Art.23 (Data valuta e disponibilità dei fondi)
–1. La data valuta dell’accredito sul conto di pagamento del beneficiario non può essere successiva alla giornata operativa in cui l’importo dell’operazione di pagamento viene accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario.
–2. Il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario assicura che l’importo dell’operazione di pagamento sia a disposizione del beneficiario non appena tale importo è accreditato sul conto del prestatore medesimo.
–3. La data valuta dell’addebito sul conto di pagamento del pagatore non può precedere la giornata operativa in cui l’import dell’operazione di pagamento è addebitato sul medesimo conto di pagamento.
–4. Il presente articolo non si applica nel caso di rettifica di operazioni di pagamento non autorizzate o eseguite in modo inesatto o nel caso in cui siano intervenuti errori che ne abbiano impedito la corretta esecuzione.»
[…]
AI SOLI FINI DELLA CRONISTORIA:
Art. 36 (Modifiche ad altre disposizioni di legge)
1. Il decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 253 di attuazione della direttiva 97/5/CE i materia di bonifici transfrontalieri, è abrogato.
2. Al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante attuazione tra l’altro della direttiva 2005/60/CE sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 11, comma 1, dopo la lettera c) è inserita la seguente: “c-bis) gli istituti di pagamento;”;
b) all’articolo 53, comma 1, secondo periodo, dopo le parole: “nei confronti degl intermediari finanziari di cui” sono inserite le seguenti: “all’articolo 11, comma 1, lettera
c-bis), autorizzati ai sensi dell’articolo 114 – novies, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e”.
3. L‘articolo 2, comma 1, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, è sostituito dal seguente: “1. A decorrere dal 1° novembre 2009, la data di valuta per il beneficiario di assegni circolari e bancari
tratti su una banca insediata in Italia non può superare, rispettivamente, uno e tre giorni lavorativi successivi alla data del versamento. Per i medesimi titoli, a decorrere dal 1° novembre 2009, la data di disponibilità economica per il beneficiario non può superare,
rispettivamente, quattro e cinque giorni lavorativi successivi alla data del versamento. A decorrere dal 1° aprile 2010, la data di disponibilità economica non può superare i quattro giorni lavorativi per tutti i titoli. E’ nulla ogni pattuizione contraria. Resta fermo quanto
previsto dall’articolo 120, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.”.
4. All’articolo 4, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 1984, n. 21, il secondo periodo è soppresso».
Principi tutti illegittimi perché attraverso essi si tenta – cosa grottesca in una legge – di far confusione tra il concetto di valuta e quello di disponibilità, in alcun modo collegabili, perché quale che sia la materiale disponibilità, la decorrenza della valuta deve essere quella
immediatamente successiva al momento in cui la somma cessa di produrre interessi per il pagatore.
L’accredito, cioè, potrà avvenire quando si vuole in funzione magari di effettive difficoltà o disguidi, ma la valuta del beneficiario non dovrà mai avere soluzioni di continuità con quella del pagatore, perché vale il già molte volte reiterato argomento secondo il quale nel preciso momento in cui il denaro cessa di essere di proprietà del pagatore deve divenire di proprietà del beneficiario, perché, se c’è un intervallo, durante quell’intervallo quel denaro frutterà interessi per la banca, che non è mai proprietaria dei soldi.
Così come è pedestremente illegittimo anche il consentire che fino al 31.1.2012 si possano ‘concordare’ termini diversi, sempre ovviamente più favorevoli alle banche, sia perché con le banche non è dato concordare alcunché vigendo il regime di cartello (chi, del resto, potrebbe mai spontaneamente e senza alcun corrispettivo voler ‘concordare’ di pagare più), e sia perché, appunto, è un incremento del costo privo di motivazione.
In sintesi, i termini in prima fase introdotti, a decorrere dal 1.11.2009, dall‘art. 2, del DL n. 78/2009 (Tremonti ter), sono stati sostituiti da quelli stabiliti dall’art. 19 e segg. del d.lgis n. 11/2010 di attuazione della direttiva SEPA (Single Euro Payments Area), secondo il quale, per tutte le operazioni di pagamento in ambito europeo (o per l’esattezza nell’area SEPA), la valuta e la disponibilità dei fondi:
-per il beneficiario non può essere successiva a quella di accredito: criterio errato perché, a prescindere da quando avviene l’accredito, la valuta deve decorrere dalla data in cui la somma viene stornata al pagatore;
-per il pagatore non può precedere la giornata lavorativa di addebito: criterio non chiaro e di nuovo errato sempre per lo stesso motivo, ovvero perché il giusto criterio resta far cessare di decorrere gli interessi a favore del beneficiario dal momento in cui la somma cesserà di
fruttarne per il pagatore.
Per assegni circolari e bancari, quindi, l’originaria disciplina contenuta nell’art. 2,1, dl n. 78/2009 (Tremonti Ter), convertito nella legge 102/2009, e modificata dall’articolo 36, comma 2, del D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, è stata, poi, abrogata dall’ 6 comma 1 bis del
decreto legislativo n. 141/2010, così come modificato dall’4 del decreto legislativo n. 218/2010.
Infatti, l’articolo 4, comma 1, del Dlgs. 14 dicembre 2010, n. 218, ha inserito il comma 1-bis nell’art. 6 del D.Lgls 13.8.10, n. 141:
«Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonche’ modifiche del titolo VI del testo unic bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attivita’ finanziaria e dei mediatori creditizi:
1-bis. Sono abrogati:
a) l’articolo 10 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;
b) gli articoli 7, 8, commi 1, 2, 3, 3-bis e 4, e 13, commi 8-sexies, 8-septies, 8-octies, 8- novies, 8-decies, 8-undecies, 8-quaterdecies del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40;
c) l’articolo 2, comma 5-quater, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2;
d) l’articolo 2, commi 1 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102».
A seguito della normativa tutta sopra richiamata, l’art. 120 del T.U. B. d.lgs n. 385/93 è oggi così formulato: Decorrenza delle valute e calcolo degli interessi (1) Art. 120.
01. Il titolare del conto corrente ha la disponibilità economica delle somme relative agli assegni circolari o bancari versati sul suo conto, rispettivamente emessi da o tratti su una banca insediata in Italia, entro i quattro giorni lavorativi successivi al versamento (2).
1. Gli interessi sul versamento di assegni presso una banca sono conteggiati fino al giorno del prelevamento e con le seguenti valute:
a) dal giorno in cui è effettuato il versamento, per gli assegni circolari emessi dalla stessa banca e per gli assegni bancari tratti sulla stessa banca presso la quale è effettuato il versamento;
b) per gli assegni diversi da quelli di cui alla lettera a), dal giorno lavorativo successivo al versamento, se si tratta di assegni circolari emessi da una banca insediata in Italia, e dal terzo giorno lavorativo successivo al versamento, se si tratta di assegni bancari tratti su
una banca insediata in Italia (3).
1-bis. Il CICR può stabilire termini inferiori a quelli previsti nei commi 1 e 1-bis in relazione all’evoluzione delle procedure telematiche disponibili per la gestione del servizio di incasso degli assegni (4).
2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori.
3. Per gli strumenti di pagamento diversi dagli assegni circolari e bancari restano ferme le disposizioni sui tempi di esecuzione, data valuta e disponibilità di fondi previste dagli articoli da 19 a 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11».
(1) Articolo modificato dall’ articolo 25 del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e sostituito dall’articolo 4 del D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, con la decorrenza indicata al comma 2 dell’articolo 6 del medesimo D.Lgs. 141 del 2010.
(2) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n 218.
(3) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n. 218.
(4) Comma rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’articolo 3, comma 3, del D. Lgs. 14 dicembre 2010, n. 218.
Quindi, per quanto riguarda gli assegni:
Versamento assegni circolari emessi dalla stessa banca: valuta dello stesso giorno del versamento.
Versamento assegni circolari emessi da banca diversa ed assegni bancari emessi dalla stessa banca:
valuta del giorno lavorativo successivo del versamento ed entro 4 giorni in disponibilità.
Versamento assegni bancari emessi da banca diversa dalla traente: l’operazione deve risultarein valuta entro 3 giorni lavorativi e entro 4 giorni in disponibilità (dal 1° aprile 2010).
La descritta disciplina risulta in contrasto con i seguenti artt. della Costituzione:
-ART 41
La decorrenza degli interessi in favore del beneficiario da un momento non immediatamente successivo a quello in cui gli interessi vengono stornati al pagatore viola l’articolo 41 C. in tutti e tre i suoi commi.
Il comma 1 (L’iniziativa economica privata è libera.) è violato perché è stato posto a tutela della proprietà privata. Il legislatore cioè, nel momento in cui dispone l’accredito tardivo, consente alla banca di sottrarre al cliente la proprietà degli interessi, o addirittura gli addebita interessi passivi in caso di ‘scoperto di valuta’: una palese violazione (uno svuotamento) del diritto di proprietà privata.
Il comma 2 (..Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale..) è violato, come il comma 1, in maniera clamorosa, perché la decorrenza tardiva della valuta configura un’appropriazione indebita o una truffa: due modi di non perseguire l’utilità sociale che non lasciano dubbi sulla loro perniciosità.
Il comma 3 (La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.) è violato perché la legge, di scaturigine lobbistica, è al contrario congegnata in modo da determinare ‘programmi’ e ‘controlli’ in danno del cliente e della società.
-ART. 3. È violato perché la normativa impugnata, ben lungi dal garantire alcuna «pari dignità» e dal costituire uno strumento per rimuovere gli ostacoli economici che la limitano, è anzi rivolto a creare – nell’interesse delle banche – ostacoli all’uguaglianza e al previsto «pieno sviluppo della persona umana» o alla «effettiva partecipazione». In particolare la normativa richiamata viola il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della C. mediante l’introdurre un’inammissibile disparità di trattamento tra banche e utenti del sistema bancario perché – con una previsione ad hoc – consente alle banche un lucro ingiusto e ingiustificato (illecito) con un pesantissimo influsso su ogni aspetto della vita sociale. Una disciplina delle valute che rappresenta una violazione del principio generale di ragionevolezza e ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento. Un irragionevole, ingiusto privilegio quello di esonerare le banche dal rispetto di norme inderogabili. Basti pensare all’art. 1322 cc, secondo cui la causa petendi di un contratto deve essere meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Anche con riferimento all’art. 24 Cost. in combinato disposto con l’art. 2697 cc la disciplina della valuta crea un notevole squilibrio processuale a favore delle banche rendendo sostanzialmente impossibile la verifica del corretto operato della banca, e quanto meno comporta, a favore della banca, un’inversione dell’onere della prova ingiusto, gravoso e difficilmente ottemperabile.
In ogni caso, fermo restando che non rileva ai fini della valuta quale sarà il tempo materiale del trasferimento, i trasferimenti avvengono peraltro da decenni mediante sistemi telematici che consentono di effettuare le operazioni in tempo reale. Oltretutto, incombendo sulla banca che riceve un assegno con una girata per l’incasso obblighi riconducibili al rapporto di mandato e dovendo il mandatario assolvere al suo incarico con la prescritta diligenza, ciò comporta che la banca non potrà non avvalersi, per acquisire la disponibilità della somma, dei sistemi telematici più efficaci.
-ART 4. È violato dove stabilisce che la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro: effettività gravemente pregiudicata da norme che consentano l’illecita sottrazione, da parte delle banche, del denaro dei cittadini.
-ART 35. L’35 è violato dove istituisce la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni: lavoro che è invece pregiudicato da fatto che un soggetto – la banca – sottrae al lavoro una parte notevole delle risorse che esso produce.
-ART 47. È violato dove si legge che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio e disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito: risparmio pregiudicato dal destinare alle banche denaro di proprietà dei cittadini e consentire forme di ‘coordinamento’ e di ‘esercizio del
credito’ altamente e iniquamente lesive dei loro interessi.
-ART 117. È violato dove, anche con riferimento all’ordinamento comunitario (in ispecie l’art. 6 CEDU), non consente al Legislatore di interferire nell’amministrazione della Giustizia.
-ARTT. 1, 2, 4, e 35. Da altre angolazioni e più globalmente sono violati perché le norme impugnate sottraggono, di fatto e formalmente, da un lato, la sovranità al popolo, trasferendola al sistema bancario; e dall’altro ledono il diritto al lavoro, in quanto la sottrazione dei soldi al cliente in favore della banca non consente a chi lavora con il proprio denaro di utilizzarlo appieno, sia perché gliene viene sottratta per alcuni giorni la disponibilità-proprietà, o lo si costringe a utilizzarlo ‘a prestito’, togliendo così effettività al diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, e sia perché gliene viene sottratta definitivamente una parte, cioè gli interessi nei giorni dell’accredito tardivo. Violano altresì l’art. 2, laddove si dispone l’inviolabilità dei diritti e l’inderogabilità della solidarietà economica.
ART. 117. È violato anche in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 6 della CEDU, infatti, nel sancire il diritto a un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse
generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato una norma interpretativa favorevole alle banche nonostante un orientamento della Corte di cassazione non favorevole, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili nella fattispecie «ragioni
imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
In relazione alla questione dell’accredito tardivo della valuta, è insomma indiscutibile la formazione di un nuovo orientamento giurisprudenziale che andava via via riconoscendo l’illegittimità dell’accredito tardivo della valuta per mancanza di causa petendi.
Gli interventi normativi di cui si evidenzia l’incostituzionalità, in sostanza, non sono stati causati dall’esigenza o dall’intento di disciplinare una situazione che lo richiedesse, ma sono invece frutto dell’intento di sottrarre le banche all’avanzare di una giurisprudenza a esse
sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente illegittima e sempre più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.
-ARTT 41 e 47. Sono violati anche dal punto di vista del principio di tutela del risparmio delle famiglie e delle imprese e della libertà di iniziativa economica.
Il ritardo nell’accredito tardivo della valuta arreca un grave pregiudizio economico ai clienti sia nel caso il conto sia in passivo, perché comporta l’indebito addebito per più giorni degli interessi e delle commissioni di massimo, sia nel caso sia in attivo, perché comporta il
mancato guadagno da parte del cliente degli interessi, che vengono invece illegittimamente attribuiti alla banca.
L’accredito tardivo della somma causa inoltre varie tipologie di altri danni al cliente, quali farlo ritrovare ‘scoperto’ e protestato laddove invece disporrebbe delle somme sol che gli fossero state immediatamente accreditate. Senza contare che, nel tempo, negli anni, il denaro che viene sottratto dalla banca, sommandosi, raggiunge cifre sistematicamente elevate o elevatissime, e tali da causare delle
differenze significative dello suo status economico, che – specie sui conti molto ‘movimentati’ – possono, secondo l’entità delle somme in gioco, ammontare a decine, centinaia di migliaia o milioni, magari molti milioni, di euro. E questo in presenza di norme quali l’art. 821 c.c., che molto semplicemente attribuisce gli interessi al proprietario, o di altre, quali il 1346 c.c., che prevede che l’oggetto del contratto
debba essere possibile, lecito, determinato o determinabile; o il 1343 cc., che impone la liceità della causa, precisando che non debba essere contraria a norme imperative, di ordine pubblico o buon costume; o il 1322 cc., che prescrive la meritevolezza della tutela della causa petendi.
ART 24 e 102. Sono violati dalle leggi che disciplinano l’accredito tardivo delle valute in materia di pagamenti tramite bonifici anche perché comportano un aggravio della possibilità di accertare i tempi degli accrediti dei versamenti. I cittadini, cioè, non hanno la possibilità di verificare, ed eventualmente provare in sede processuale (se non ricorrendo a un controllo incrociato con la documentazione del soggetto disponente), la data della disposizione e l’entità della tardività dell’accredito. Questo perché il cliente è reso edotto delle movimentazioni solo con la ricezione dell’estratto conto, ma non ha conoscenza della data/ora in cui viene effettuata la disposizione di pagamento.
Tale disciplina comporta pertanto una notevole sproporzione tra gli oneri probatori a carico dei correntisti e delle banche, pregiudicando l’effettività del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.).
Le norme che qui si tacciano di incostituzionalità hanno, insomma, reso impossibile l’accredito delle somme del cliente della banca nello stesso giorno in cui è eseguita l’operazione determinando tassativamente e esplicitamente i numero dei giorni dopo i quali l’accredito
deve avvenire.
In dettaglio la normativa attuale, per quanto riguarda gli assegni, dispone:
Versamento assegni circolari emessi dalla stessa banca: valuta dello stesso giorno del versamento.
Versamento assegni circolari emessi da banca diversa ed assegni bancari emessi dalla stessa banca: valuta dello giorno lavorativo successivo del versamento ed entro 4 giorni in disponibilità.
Versamento assegni bancari emessi da banca diversa dalla traente: l’operazione deve risultare in valuta entro 3 giorni lavorativi e entro 4 giorni in disponibilità (dal 1° aprile 2010). Per quanto riguarda i bonifici, invece, prevede:
La valuta per il beneficiario non può essere successiva alla fine della giornata operativa dalla ricezione da parte del prestatore del servizio; mentre la disponibilità decorre non appena tale importo è accreditato sul conto del prestatore medesimo; per il pagatore, non può precedere la giornata lavorativa dell’addebito.
Fino al 1.1.2012, i contratti possono prevedere, per la disponibilità, termini di esecuzione diversi, di massimo 4 giorni per le disposizioni su cartaceo e massimo 3 giorni per le disposizioni telematiche. Norme che privano ex lege del proprio denaro per un certo numero di giorni, e di parte di esso (gli interessi) definitivamente. Si chiede pertanto voglia il G.I., ritenuta la non manifesta infondatezza della questione di
illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35, 41, 47, 101, 102, 104 e 117 della Costituzione:
-1) del comma 01, 1, 1 bis e 3 dell’art. 120, del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230): «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», come modificato:
–dagli artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21, 22, e 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11,
–nonché come modificato e rinumerato dall’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141, quest’ultimo come modificato dall’articolo 3, comma 3, e art. 4, comma 1, del decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218,
-2) degli stessi artt. 19, 20 (quest’ultimo art. 20 – lo si ripete – modificato dall’articolo 8, comma 7, lettera a, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito in legge n. 106, del 12 luglio 2011), 21 22, e 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, stante il rinvio ad essi
contenuto dall’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi della istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospenda il giudizio ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale sia notificata alle parti in causa e al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, al Presidente del Consiglio dei ministri, e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.
-3) ANATOCISMO. ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELLA CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI PASSIVI QUAND’ANCHE PRATICATA PURE PER GLI INTERESSI ATTIVI OVE NON SIA PARIFICATA ANCHE L’ENTITA’ QUANTITATIVA DEL TASSO ATTIVO E DI QUELLO PASSIVO.
Non c’è dubbio che la Corte Costituzionale si sia già pronunziata, con sentenza n. 341 del 12/10/2007, in tema di anatocismo, sulla questione di legittimità dell’art. 25, comma 2 del decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342, sollevata dal Tribunale di Catania.
Sennonché la questione di illegittimità che qui si sottopone all’attenzione del Giudicante esula da quella già sottoposta e decisa sia dal punto di vista dei profili di illegittimità sollevati che da quello delle motivazioni del rigetto della Corte Costituzionale.
La questione esaminata e decisa dalla Corte C. attiene infatti al solo tema della legittimità o no dell’anatocismo in presenza della sua applicazione sia al passivo che all’attivo.
È però incredibilmente sfuggito non solo al remittente Tribunale e quindi alla Corte Costituzionale, ma a tutta la giurisprudenza di ogni grado e stadio, ciò che salta agli occhi di ogni cittadino, ovvero che c’è un altro aspetto del problema oltre quello esaminato dalla
sentenza della 341 della CC: un aspetto essenziale: ovvero quella della determinazione quantitativa dei tassi attivi e passivi prima che si possa parlare di una loro parificazione. Così come è sfuggito che andava precisato nelle norme che, perché si possa parlare di
parificazione, occorre anche che il cliente abbia situazioni attive e passive paritetiche, altrimenti manca il termine di paragone, il polo opposto, perché il concetto di parificazione possa esplicarsi.
Una volta cioè stabilita la legittimità del criterio di applicare l’anatocismo sia al passivo che all’attivo, occorreva però premettere che la parificazione doveva implicare la parità quantitativa del tasso attivo e passivo nonché l’esistenza di un pari attivo e passivo, salvo a
non voler legittimare una frode: la frode che, appunto, in virtù di questa singolare omissione normativa e giurisprudenziale, le banche stanno perpetuando in danno dell’intera società.
Ne deriva pertanto che, nella parte in cui, ai fini della legittimazione della capitalizzazione trimestrale dei tassi, non specificano la necessità, perché sussista parificazione, che i tassi attivi e quelli passivi siano uguali, nonché che sussista anche un pari attivo a cui applicare il pari tasso, non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 70, 76, 77, 2, 3, 24, 41, 47, 102 e 117 della Costituzione:
-1) del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 – in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) – come modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CIC stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori» e dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto legislativo n. 342/1999)» che statuisce: «Conto corrente.
1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita capitalizzazione periodica». Tale illegittima normativa è in realtà conseguita alla pronuncia da parte della
Corte di Cassazione di una serie di sentenze conformi (Cass. 16.3.1999, n. 2374, Cass. 30.3.1999, n. 3096, Cass. 11.11.1999, n. 12507, e altre) con le quali ha dichiarato illegittima la prassi della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nel conto corrente bancario, per violazione dell’art. 1283 cc, sull’assunto che essa prassi «si basa su di un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma
consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi».
Ne è derivato che il legislatore, per consentire alle banche di sottrarsi agli effetti dell’orientamento della Cassazione, ha varato il citato DL n. 342/99, con il quale ha intenso – appunto mediante l’omettere il riferimento alla necessità che l’entità del tasso attivo passivo fossero uguali e che sussistesse un attivo pari al passivo – ‘salvare’ le inique clausole contrattuali in tema di anatocismo sia nel periodo anteriore al DL, sia in quello successivo intercorrente tra il DL e l’emanazione del provvedimento di attuazione da parte del CICR, introducendo una regolamentazione legislativa in un settore fin lì affidato alla regolamentazione pattizia riproduttiva di quella consuetudinaria.
Il legislatore, quindi, anziché legiferare secondo l’orientamento giurisprudenziale rivolto a tutelare i cittadini, soggetti deboli nel settore creditizio, ha effettuato un intervento rivolto ad aggravare lo ‘sbilanciamento’ degli opposti interessi in campo. È stato insomma ‘rimosso’ dal quadro normativo e giurisprudenziale il dato di comunissima esperienza e conoscenza che non vi può essere parificazione se non vi è parità del tasso attivo e di quello passivo e se non vi è una pari somma all’attivo o al passivo, senza contare che in realtà c’è quasi sempre solo passivo (Dimenticanza? Stupidità istituzionale? Collusione culturale? O che altro?).
In pratica – senza certo mettere in dubbio l’adamantinità delle intenzioni di nessuno – siamo di fronte a un indegno disegno per svenare la società a vantaggio della banche. E ciò, si osservi, nell’ambito di una normativa e di una giurisprudenza – costituzionale e non – falsamente colte e forbite ma in realtà di un’ignoranza e di un oscurantismo medievale, con tutto il rispetto per il medioevo, che in realtà produsse cose di grande rilevanza e bellezza. Incolte e ottuse, la giurisprudenza e la normativa, perché nessun sembra capire che per di più non è dovuto alle banche alcun interesse, visto che, come nell’esempio che questo difensore reitera in ogni sede da 25 anni, se tizio da a Caio un assegno da 1.000 euro il primo gennaio e Caio lo versa dieci minuti dopo a Tizio i mille euro vengono stornati subito e a Caio vengono accreditati, se tutto va bene, dopo i 3 giorni ora illegittimamente stabiliti (in realtà, specie in passato, anche 10, 20 giorni): giorni durante i quali gli interessi andranno alla banca che non è stata mai proprietaria dei soldi.
Cosa che concreta poi il «signoraggio secondario»: un’attività criminale che le banche praticano sotto l’occhio vigile della magistratura e che può essere risolta appunto con la parificazione quantitativa dei tassi attivi e di quelli passivi in modo che gli interessi vadano ai
proprietari dei soldi, nonché allo Stato in relazione ai prestiti frutto del moltiplicatore monetario. Cose che la magistratura non può continuare a non capire, altrimenti nemmeno l’accusa di incultura e ottusità basterà più a spiegare tanta resistenza, perché a tutto c’è un limite, e qui il limite è stato superato da molto tempo, perché è inutile strapparsi le vesti sulla crisi della società, ma aver poi concorso e continuare tanto attivamente a causarla.
Ma vediamo in dettaglio il perché di tanto sdegno quantificando l’ammontare della truffa frutto della norma in questione. Ebbene, dall’entrata in vigore della delibera CICR (22.4.2000) al 31.12.2010, il tasso attivo medio è stato dell’0,87%, mentre il tasso passivo medio è stato del 10,08% + lo 0,81% trimestrale, e quindi il 3,24% annuo (0,81 x 4 = 3,24), di commissione di massimo scoperto (CSM), ovvero, complessivamente, del 13,32%, per cui c’è stata una differenza tra attivi e passivi del 12,45% (13,32 – 0,87 = 12,45).
Una differenza che ha avuto – ogni 100.000 euro – le conseguenze economiche riprodotte di seguito.
Al tasso attivo dello 0,87%, dal 22.4.2000 al 31.12.2010:
-100.000 euro attivi hanno fruttato al cliente, senza anatocismo, 9.570 €;
-100.000 euro attivi hanno fruttato al cliente, con l’anatocismo, 9.997 €;
-ovvero un guadagno per il cliente di 427 euro in dieci anni.
Invece, al tasso passivo del 13,32%,
-100.000 euro passivi, senza anatocismo, sono costati al cliente, 146.720 €;
-100.000 euro passivi, con l’anatocismo, sono costati al cliente, 350.296 €;
ovvero un guadagno per la banca di 203.576 € in dieci anni.
Il che significa che le banche pagando, ogni dieci anni, su ogni 100.000 € attivi, 427 euro in più, si sono conquistate, con l’avallo della magistratura, il ‘diritto’ di truffare agli italiani, 203.576 euro di interessi passivi in più.
E questa sarebbe la giustizia per garantire la quale siedono sui loro scranni gli Onorevoli Signori Giudici della Corte Costituzionale?
E stiamo parlando degli interessi in più ogni 100.000 euro di affidamenti. Ma qual’è la cifra globale dei prestiti in questi dieci anni?
Fermo restando che il vero crimine, quello sul quale non si sa perché la giustizia tace, è che la banca lucri interessi passivi, anatocistici o non, su soldi non suoi (signoraggio secondario). Cifre immani che spiegano l’immane dispiegamento di mezzi mediatici, giudiziari e politici
usati come diversivi per consentire una simile frode in danno della società.
Evidenziato quindi che quanto qui si vuole indicare come anticostituzionale non ha nulla a che vedere con ciò di cui la Corte argomenta nella sua sentenza in tema di anatocismo ex art. 25, c. 2°, del decreto legislativo n. 342, riprendiamo il discorso in termini più formali, senza che però la sostanza dei problemi debba mai sfuggire, perché troppe volte i virtuosismi formalistici sono funzionali a fini omissivi o rivolti a finalità non meritevoli di tutela.
Ciò detto, non è manifestamente infondata, per profili diversi da quelli esaminati dalla Corte Costituzionale, la questione di legittimità della normativa in questione laddove, nello stabilire che la modalità e i criteri di produzione degli interessi sono legittimi purché sia assicurata la
stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori, non dispone però che il tasso degli interessi attivi e passivi debba essere uguale, e che inoltre il criterio della parificazione deve implicare che il cliente abbia anche partite attive di pari importo alle quali
poter applicare la altrimenti astratta parificazione. Illegittimità, lo si ripete, di cui il Tribunale di Catania non ha dubitato e sulla quale la Corte Costituzionale non si è fin qui pronunziata.
Fermo restando che la Corte Costituzionale – lo si adduce per mera completezza storica benché non rilevi continuare a ribadirlo – è giunta a conclusioni che comunque indignano.
Come quando, in relazione alla questione della contrarietà all’art. 3 C. per la diversità di trattamento derivante dalla diversa disciplina applicabile ai contratti di conto corrente stipulati prima o dopo l’entrata in vigore della delibera del CICR, nega che vi sia violazione del
principio di eguaglianza o di ragionevolezza adducendo che il fluire del tempo costituisce un elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche e giustifica la disparità di trattamento.
Una rilevanza del tempo trascorso che la sentenza Corte della Costituzionale n. 341/07 si limita ad affermare al fine di rendere legittima la norma impugnata, senza però spiegare perché né in che senso il tempo avrebbe – in quel particolare caso – prodotto quel non meno
particolare effetto.
Un argomento, quello della rilevanza del tempo trascorso, che la CC usa in realtà, come vedremo meglio di seguito (ma è un arrampicarsi sugli specchi), per spiegare come mai abbia cambiato orientamento rispetto alla sua stessa sentenza n. 425/2000, nella quale, in analoga fattispecie e in antitesi a quanto sostiene nella 341/07, aveva ritenuto al contrario per nulla invincibile quella necessità di piegarsi alla normativa europea sulla quale fonda la 341/07.
Cioè a dire: anche in occasione della sentenza 425/2000, sulla legittimità del comma 3 dell’art. 25 del d.lgsl 342/99, la Corte Costituzionale, nel decidere sulla completezza e regolarità della legge delega, aveva richiamato i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 18
della direttiva del Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989. In quel caso però il risultato era stato opposto a quello di cui alla 341/07. È ben vero, cioè, che le due sentenze intervengono su normative vigenti al tempo differenti, ma il fatto che nella 425/2000 vi sono stati tanto pochi ostacoli a disattendere la direttiva del Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989 quanti nella 341/2007 ve ne sono stati per applicarla, non può essere attribuito alle blande motivazioni accampate, ma solo all’avere il potere bancario ormai preso il sopravvento in ogni dove.
La Corte Costituzionale, insomma, per giustificare il suo cambiamento di orientamento rispetto alla 425/2000, si limita ad illuminarci, nella 341/2007, sulla circostanza che «il fluire del tempo costituisce un elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche»: principio di ordine generale indubbiamente condivisibile, ma non si addentra poi nel merito del perché mai, in questa fattispecie, da dopo il 9 febbraio 2000, l’influsso del tempo possa aver giustificato che le banche abbiano – d’un subito – diritto di violare impunemente il principio di
ragionevolezza, di tutela della dignità individuale, del risparmio, dell’iniziativa economica, della proprietà, dell’affidamento, della certezza del diritto eccetera. Un argomento, quello del tempo, al quale questo difensore è molto sensibile, tant’è che, nel 1989, in L’atto di citazione già pronto per coloro che vogliano fare causa alla loro banca, ebbe a scrivere:
«Fa osservare al Tribunale che ogni ritardo gioverebbe alla convenuta banca e pregiudicherebbe invece gli interessi dell’attore, perché il decorso del tempo va considerato, non come un generico elemento di disfunzione, ma come un elemento sostanziale dei diritti di cui si chiede l’attuazione e, per altri versi, come uno degli strumenti fondamentali nell’uso dei quali ogni convenuto riottoso sistematicamente si specializza per continuare a essere indifferente alla giustizia».
Un argomento quindi – il tempo – che la Corte, a giudicare dalla durata che continuano ad avere le cause, non hai mai preso in seria considerazione dal punto di vista della necessità di intervenire adeguatamente perché durino meno, ma usa oggi in favore di quelle pratiche filo - bancarie contro le quali tutto il paese grida il suo disprezzo e la sua rabbia. Rabbia resa impotente dalle insufficienze e dalle gravi anomalia della giustizia, perché, sempre in tema di grandi principi, come questo difensore ha scritto per anni sull’intestazione
dei suoi atti giudiziari: «Se la civiltà è figlia del controllo, la disfunzione della giustizia civile e amministrativa è necessariamente la madre dell’attuale stato delle cose». Banche, in pratica, di cui solo la magistratura, oltre naturalmente che la politica e i media, continuano a condividere i metodi, perché – se non li avessero condivisi – avrebbero avuto il potere di fermarle in un attimo.
Un tempo che, in definitiva, dall’angolazione di questo difensore, rileva solo, in questo caso, dal punto di vista del tempo che la giustizia in generale e la Corte Costituzionale in particolare sta facendo perdere alla società italiana per poter recuperare i crediti verso le banche e
causare quell’effetto regolatore della società che è tipico solo della giustizia civile. Infatti, che il potere legislativo possa effettuare, in virtù del decorso del tempo, scelte politico-economiche nuove rispetto alle precedenti è indiscutibile.
Non meno indiscutibile è però anche che l’ordinamento giuridico è un complesso di norme organicamente tutte volte a produrre il rispetto di una serie di principi cardine, funzionali oltretutto a garantire la sopravvivenza dell’ordinamento stesso. Un complesso di fondamentali norme che perché, da legittime che sono, possano divenire illegittime, o irrilevanti, non è bastato il decorso dei millenni né degli immani eventi che nel loro corso si sono succeduti, sicché non è dato capire cosa abbia ora tanto suggestionato la
Corte Costituzionale da farle sembra giustificabile che il diritto possa trasformarsi, in qualche anno, in strumento per ledere così a fondo gli interessi della società. Né sembrino sarcastiche le affermazioni di questo difensore perché ciò che è sarcastico sono invece le affermazioni della Corte in quella sentenza. Né meno offensiva per la nostra intelligenza è l’altra affermazione, pure contenuta nella
sentenza n. 341/07: quella secondo la quale non sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost. per il diverso trattamento assicurato agli istituti di credito bancari rispetto agli altri operatori non bancari del credito in quanto le posizioni dei due operatori del credito sarebbero
incomparabili’ data «la diversa natura dei soggetti con cui il rapporto è intrattenuto (in un caso specificamente e professionalmente destinati allo svolgimento della funzione creditizia e alla intermediazione finanziaria, nell’altro caso occasionalmente implicati in un rapporto obbligatorio avente a oggetto una somma di danaro)».
Una motivazione grave anche questa perché prende in considerazione la differenza dal solo punto di vista delle banche e degli altri ‘operatori’, e non anche dal punto di vista dei debitori, senza curarsi che le differenze tra queste entità tutte da sottoporre a ben altri controlli e vincoli di quelli attuali si abbattono poi sui debitori, sulla società, devastandoli. Argomenti, quelle della CC, singolari e inadeguati, ma che hanno ciononostante fruttato alle banche il mancato esame dell’aspetto fondamentale dell’art. 25,2, ovvero del fatto che esso rafforza la loro posizione di soggetto vergognosamente dominante sui clienti e sui cittadini, e che la norma impugnata incrementa il proliferare dei già altissimi interessi passivi a fronte di interessi attivi risibili, ancorché ridicolmente ‘parificati’.
Aspetto, lo ribadiamo, quello della sostanza della ‘parificazione’, ovvero dell’entità dei tassi di interesse, che esula dalla sentenza della Corte e che, eccoci a noi, è oggetto della questione di costituzionalità che qui si solleva. È ridondante infatti la qualità di giudici o di avvocati, bastando anche solo quella di cuochi o falegnami, e insomma di cittadini comuni, per capire che sarebbe ragionevole parlare di
parificazione se gli interessi attivi e passivi fossero uguali, ma è anomalo sostenerlo ove siano sperequati, per di più enormemente.
Una ‘parificazione’ che sembrerebbe essere fondata sul presupposto della stupidità dei cittadini che la subiscono, ma è frutto invece dell’impotenza alla quale li si è condannati sottraendogli ogni ricorso effettivo ex art 6 della CEDU, perché siamo ormai in una situazione
politica, mediatica e istituzionale consistente né più né meno che nel cedimento dei poteri, d tutti i poteri, al potere bancario. Poteri tra i quali un legislatore e una giustizia che – anche qui stranamente – sembrano no sapere che, oggi più di ieri, la sottoscrizione da parte dei cittadini delle clausole bancarie, tra cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi o di ogni altra competenza bancaria, non
è frutto di alcuna libera scelta contrattuale, ma dell’inevitabilità di doversi piegare a un cartello che non è solo tra banche, perché coinvolge tutto e tutti quelli di cui le banche hanno avuto bisogno per mettere in piedi il loro folle progetto: folle perché così ampio che stanno causando la scomparsa di un contesto nel quale poter spendere i benefici che continuano a conseguire.
Argomentazioni, quelle di cui alla sentenza n. 341/07 in ordine alla regolarità e al rispetto da parte dell’art. 25 d. lgsl 342/99 dei limiti e dei requisiti della normazione secondaria, basate poi anche su un’ulteriore motivazione evasiva e in contrasto con la 425/2000, sempre della
CC. Sostiene infatti la CC che l’art. 25,2 d.lgs. 342/99 va letto alla luce del contenuto dell’art. 1, della legge delegante n. 128/88 che, a sua volta, disponeva che il Governo emanasse disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 385/93 alla luce dei principi e criteri direttivi
contenuti nell’art. 25 legge 19 febbraio 1992, n. 142; Norma quest’ultima che conteneva due distinte deleghe, volte all’adeguamento del nostro ordinamento all’art. 18 della direttiva del Consiglio Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989, che formulava il principio di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi da parte degli enti creditizi nell’ambito di ogni Stato membro.
Dimentica però la CC che la negazione dei profili di illegittimità di cui alla 341/07 cozza con la n. 425/2000, con la quale pure si era espressa sull’illegittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 25 del d.lgsl 342/99.
A prescindere infatti che in tanto preteso e impettito formalismo, bisognerebbe che qualcuno iniziasse finalmente a dire che il Parlamento europeo è un falso parlamento, in cui i deputati non hanno potere di iniziava legislativa, mentre il Parlamento stesso non ha il potere di
promulgare le leggi che vota, perché questo potere è nelle mani della Commissione e del Consiglio, e tutti sono nelle mani della burocrazia che è al soldo delle lobby, non è comunque dato capire come mai la necessità di adeguarsi alla citata normativa europea non è stata ritenuta – lo si ripete – così invincibile quando, con la 425/2000, ha negato l’applicabilità retroattiva della disciplina sull’anatocismo per i contratti bancari già in essere prima della entrata in vigore della CICR.
Cioè a dire: anche in occasione della decisione sulla legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 25 del d.lgsl 342/99, nel decidere sulla completezza e regolarità della legge delega, la CC aveva richiamato i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 18 della direttiva del Consiglio
Europeo 89/646/CEE del 15 dicembre 1989. In quel caso però il risultato era stato opposto. Lì, infatti, la CC, limitatamente al comma 3, così scriveva: «Come già detto, invero, con l’art. 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998, si conferì delega al Governo per l’emanazione di “disposizioni integrative e correttive” del testo unico bancario, richiamando espressamente i principi e criteri direttivi indicati nell’art. 25 della legge n. 142 del 1992, in attuazione dei quali vennero emanati dapprima il decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481 (che recepiva e adattava al contesto italiano la surrichiamata direttiva 89/646/CEE) e poi il decreto legislativo n. 385 del 1993. Quest’ultimo, oltre a recepire a sua volta i contenuti del decreto legislativo n. 481 del 1992, riordinava organicamente l’assetto della materia bancaria e creditizia, con un testo unico di natura ‘normativa’ e non già meramente ‘compilatoria': così da caratterizzarsi come disciplina attuativa di quella direttiva comunitaria e, allo stesso tempo, come legge di grande riforma economico-sociale (v. sentenze n. 49 del 1999 e n. 224 del 1994). Ma, per quanto ampiamente possano interpretarsi le finalità di “integrazione e correzione” perseguite dal legislatore delegante,
nonché i princìpi e criteri direttivi posti a base del testo unico bancario, è certamente da escludersi che la suddetta delega legittimi una disciplina retroattiva e genericamente validante, sia pure nell’esercizio del potere di armonizzazione di tale testo unico con il resto della normativa di settore».
Visto, in sostanza, che la sentenza 425/2000 della Corte Costituzionale non lascia dubbi circa il fatto che la delega non possa legittimare «una disciplina retroattiva e genericamente validante», viene da chiedersi come mai ciò diviene legittimo con la 341/2007.
Un quesito che non può trovare risposte di natura giuridiche, meno che mai se le si volesse giustificare in virtù del fattore ‘tempo’, e deve invece essere necessariamente legato allo stringersi sempre più del cappio del potere bancario europeo, perché purtroppo, stante il
potere legislativo nullo del Parlamento europeo, lo si voglia ammettere o no, la BCE – un’incredibile entità di proprietà privata, appartenente per il 15% alla Banca d’Italia, i cui maggiori ‘azionisti’ sono come è noto Banca Intesa, San Paolo, Credito Italiano eccetera – è, nei fatti, il vero legislatore europeo. Con la conseguenza che, per proprietà transitiva, se lo Stato italiano e gli Stati europei sono al
servizio delle banche, lo sono per forza di cose anche le magistrature europee e quella italiana.
Magistratura italiana che quindi, nel rispondere allo Stato, risponde in realtà a Banca Intesa, San Paolo eccetera: entità tutte giammai deputate ad alcuna forma di governo del paese da nessuno, ma aduse da sempre a una totale acquiescenza dei poteri ai loro voleri.
Argomenti che non devono stupire in un atto giudiziario, dovendo invece stupire il contrario: ovvero la finzione – un’eterna, integralistica finzione – che tutto ciò non sia. Questi i fatti. Fatti che, altrettanto evidentemente, sconsigliano una visione troppo
semplicistica dell’europeismo.
Una visione che oltretutto si scontrerebbe con le profonde differenze che esistono tra i regimi bancari europei. Un’Europa nella quale ci sono paesi, come il Belgio, di cui questo difensore ha fatto a suo tempo qualche esperienza in quanto deputato europeo.
Un regime bancario, quello belga, che certamente partecipa anch’esso dei crimini del signoraggio bancario primario e secondario, ma è ispirato, dal punto di vista dei costi, a visioni profondamente diverse da quelle italiane: caratterizzare da logiche di sistematico
taglieggiamento, usura e violenta prevaricazione. Anche qui, in definitiva, a voler ‘parificare’ i sistemi, dovremmo esportare la smodatezza
furiosa dell’esosità, fraudolenza e prevaricatorietà bancaria italiana. Svolto quindi il tema della sia pur qui irrilevante non esaustività, inadeguatezza e incoerenza della della 341/2077 della Corte Costituzionale sulla questione di illegittimità dell’25, c. 2°, decreto legislativo 04/08/1999, n. 342, veniamo – prima di entrare nel merito delle già anticipate e in parte svolte questioni di illegittimità che qui si vogliono prospettare – a un breve excursus sugli interventi normativi e giurisprudenziali che hanno regolamentato nel corso degli anni l’anatocismo.
Fondamentale è naturalmente l’art. 1283 c.c., che recita: «In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di
interessi dovuti almeno per sei mesi».
La Corte di Cassazione, quindi, mutando il suo precedente orientamento, a partire dalla sentenza n. 2374 del 16/3/1999 (vedi Cass. Civ. n. 3096/99, 3845/9912507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03), aveva affermato che la capitalizzazione
trimestrale era illegittima perché contraria all’art. 1283 c.c. in quanto tale pratica non rispondeva ai requisiti dell’uso normativo ex artt. 1 e 8 delle preleggi, ma si inquadrava nella fattispecie dell’uso negoziale ex art. 1340 cc, con la conseguenza che necessitava, per la sua
validità, della sussistenza, non soltanto dell’elemento oggettivo (il c.d. usus, ossia la ripetizione costante, generalizzata e uniforme di un determinato comportamento), ma anche dell’elemento soggettivo (l’opinio juris ac necessitatis, ossia la convinzione della giuridicità del
comportamento), non ritenuto sussistente. Un mutamento di orientamento della Cassazione che ha causato numerose azioni legali specie dei titolari di conto corrente contro le banche per la declaratoria della nullità parziale dei contratti bancari in parte qua e per la ripetizione dell’indebito oggettivo.
Ecco allora che, con anomalo tempismo, è sceso in campo il ‘legislatore’ il quale, con il D.Lgs 342\4.8.99, da un lato, ha tentato di legittimare ex post le clausole anatocistiche, divenute nulle data la nuova giurisprudenza, e dall’altro ha disciplinato la capitalizzazione degli interessi per i contratti a venire. In tale provvedimento – contenente una serie di modifiche e integrazioni al TUB, e costituente attuazione dell’art. 1,5 L. 24.4.98, n. 128 – il Governo inseriva infatti, all’art. 25, una disposizione che, da una parte, prevedeva la possibilità di pattuire la capitalizzazione per il futuro secondo modalità la cui determinazione veniva rimessa ad apposita delibera del CICR, con il limite della necessità di garantire la medesima periodicità del meccanismo di capitalizzazione sia con riguardo agli interessi passivi sia con riguardo agli interessi attivi; e dall’altra riconosceva piena validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione trimestrale
stipulate nel periodo pregresso al decreto, salvo l’obbligo del loro adeguamento a quanto stabilito dal CICR nella medesima Delibera di cui sopra.
La CC, con la già richiamata sentenza 17.11.2000 n. 425, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 co. 3 D. Lgs. 342/99, in riferimento all’art. 76 Cost., adducendo che la legge delega autorizzava il Governo a emanare una disciplina integrativa e correttiva del TUB, ma non una sanatoria con efficacia retroattiva, capace di rendere valide clausole nulle per contrarietà a norme
imperative contenute nel codice civile.
La Consulta ha sostanzialmente cristallizzato le conclusioni della Cassazione (l’anatocismo è illegittimo fino all’entrata in vigore della delibera CICR del 2000; resta ferma la possibilità di pattuire, successivamente alla delibera del 2000, valide clausole di capitalizzazione degli interessi, ma senza efficacia retroattiva: le somme corrisposte dal correntista a titolo di interesse anatocistici in base a clausole contenute in contratti stipulati antecedentemente alla delibera medesima – o peggio ancora applicate dalle banche richiamandosi all’uso negoziale ex art. 1340 cc – devono essere restituite dalle banche).
Come già anticipato, la richiamata sentenza della CC ha però investito solo alcuni aspetti della legittimità o illegittimità costituzionale dell’anatocismo e ciò è a maggior ragione illegittimo se si considera che la disciplina dei conti correnti stipulati successivamente alla delibera del CICR del 2000 costituisce una normativa speciale e derogatoria rispetto all’art. 1283 cc. È da censurare quindi che le banche, a far data da aprile 2000, data in cui è stata introdotta la capitalizzazione trimestrale anche dei tassi attivi, hanno applicato una forma di
capitalizzazione trimestrale sia ai tassi attivi che a quelli passivi, con la giustificazione formale di essersi adeguate alla nuova disciplina, ma di fatto eludendola, in quanto hanno continuato ad applicare tassi attivi vicini allo zero e tassi passivi elevatissimi, che è l’aspetto
incredibilmente sfuggito alla disamina della Corte Costituzionale e oggetto della presente azione, perché bisogna porre rimedio alla sorprendete mancata attenzione generale su questo punto. Non si può infatti consentire che le banche aggirino l’ostacolo dell’illegittimità dell’anatocismo ricorrendo al sistema di applicare la trimestralità anche agli interessi attivi senza per pareggiare la misura del tasso attivo e quello passivo. Ci si troverebbe altrimenti di fronte al falso proposito di bilanciare degli assetti economici e normativi ma in realtà ad una violazione dello spirito e dei principi ispiratori dell’ordinamento. Né si può (sempre in tema di finzioni) fingere di dimenticare o comunque non considerare che la sottoscrizione da parte dei clienti della clausola relativa alla capitalizzazione degli interessi non è certo il frutto di una libera scelta contrattuale. Si finge cioè (una finzione istituzionale) che basti assicurare all’attivo e al passivo la ‘stessa periodicità’ nel ritmo meramente temporale di accumulo degli interessi al capitale. Ma, per cominciare, siamo di fronte ad atti e calcoli predisposti unilateralmente, a cura delle banche, in moduli stampati in conformità con le direttive impartite dall’associazione di categoria senza alcuna negoziazione individuale e in una situazione di grave squilibrio tra banche e correntisti.
La clausola della capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori alti e dei bassissimi interessi creditori è cioè imposta quale presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari, e non vi è altra alternativa, per il cliente, che il prendere o il lasciare (altro che
adesione spontanea o condivisa, cristallizzatasi nel corso degli anni!) L’utenze, cioè, sa di non avere alcuna alternativa di accesso al sistema creditizio, connotato da accordi di ‘cartello’ e dalla regola del ‘prendere o lasciare’ contratti bancari sono infatti stipulati attraverso moduli o formulari (contratti per adesione e art. 1342 c.c.) unilateralmente predisposti dalle banche, senza alcuna trattativa tra le parti e
senza alcun potere di negoziazione per il cliente.
La valenza contrattuale del patto ex art. 1372 c.c. (il contratto ha forza di legge tra le parti) può essere invece raggiunta solo se vi sia per il cliente la possibilità di accettare o rifiutare le condizioni previamente stabilite dalla controparte. La norma in questione non essendo coerente agli artt. 70, 76, 77, 3, 24, 41, 47, 102, 111 Cost. è quindi in contrasto con svariati principi, tra cui quello di eguaglianza, ragionevolezza, e di diritto alla difesa. Anche dopo l’emanazione del decreto legislativo 342/99 e della delibera CICR del 9/02/2000, è nulla per illegittimità costituzionale la sottoscrizione da parte di un correntista della clausola circa la capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi e passivi senza però la previsione che i tassi passivi e attivi devono essere uguali, e che vi devono essere pari somme all’attivo e al passivo su cui applicare quei pari tassi.
Non è pertanto manifestamente infondata – laddove non stabiliscono che la capitalizzazione trimestrale è legittima al passivo purché anche all’attivo sia applicata con analogo tasso e purché sussista un attivo di pari importo al quale poter applicare quel pari tasso – la
questione di illegittimità costituzionale del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 – in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) – come modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo
4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori» e dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto legislativo n. 342/1999)» che statuisce: «Conto corrente.
1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica» Ciò stante il contrasto con la Costituzione agli:
-ARTT. 70, 76 e 77, dove disciplinano la delega della funzione legislativa al Governo, ovvero allo:
-art. 70, dove dispone che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
-art. 76, dove dispone che l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
-art. 77, dove dispone che il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria e che, quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinque giorni, e che i decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
L’art. 76 della Costituzione, infatti, nel disciplinare il potere legislativo accordato al Governo tramite delegazione delle Camere, dispone che tale potere può essere esercitato unicamente con «determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti». È pertanto necessario che – affinché sia rispettato il disposto di tale articolo – la legge delegante contenga i limiti che legittimano il processo formativo della delega legislativa.
La Legge delega n. 128, del 24 aprile 1998, all’art. 1, c. 5, con riferimento alla competenza attribuita al decreto legislativo in esame, così solamente ed esclusivamente aveva stabilito: «Il Governo è delegato a emanare, entro il termine di cui al comma 1, e con le modalità di cui ai commi 2 e 3, disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 1^ settembre 1993, n. 385, e successive
modificazioni, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l’osservanza della procedura indicati nell’art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142». Sussiste quindi una prima palese violazione dell’art. 76 Cost. perché l’art. 25 d. lgs. 342/99 ha
ecceduto i limiti segnati dalla L. 128/98 e si è concretizzato in un eccesso di delega (ultra vel
extra vel contra). Il Governo ha cioè provveduto, attraverso il primo comma dell’articolo contestato, a demandare – senza averne facoltà – al CICR la disciplina delle modalità e i criteri per la produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie. Ha dunque sub delegato a un organo diverso e non specificato la regolamentazione di una parte del contenuto
per cui aveva avuto la delega a legiferare. La potestà normativa del CICR, composto da vari ministeri e con la partecipazione del
Governatore della Banca d’Italia, non può invece essere esercitata autonomamente dettando soluzioni a problemi interpretativi che attengono a norme civilistiche, quali l’art. 1283 cc.
È da escludere che la delega contemplasse una possibilità come quella di stabilire una parificazione che non si estendesse però all’entità del tasso passivo e attivo da applicare o che non prevedesse l’esistenza all’attivo e al passivo di pari somme alle quali applicare il pari
tasso. Una possibilità che non può collocarsi nell’ambito delle competenze del CICR. Il contrasto con l’art. 76, estrinsecandosi in primis in un eccesso rispetto alla delega conferita, coinvolge indirettamente anche l’art. 77 C. laddove al primo comma stabilisce l’impossibilità
per il Governo di esercitare la funzione legislativa senza la delega delle Camere. Violazione questa che si verifica oltre che nell’ipotesi di assenza di delega, anche nel caso in cui si eccedano i limiti di quella conferita, oltrepassando – come nell’ipotesi dell’art. 25 con la
previsione di una sub delega – i principi e i criteri direttivi stabiliti nella legge delegante.
Oltre all’eccesso di delega – sempre in relazione all’istituzione di un tipo di parificazione che potesse essere considerata tale anche in presenza di un tasso attivo e uno passivo di diversa entità e in assenza di pari somme all’attivo e al passivo – si ravvisa nell’art. 25 un’ulteriore violazione ai principi di cui all’art. 76 perché il suo contenuto è in contrasto con norme alle quali la legge delega non aveva autorizzato a derogare, come l’art. 1283 cc.
Infatti, al di là del tentativo – poi sventato – fatto con il d. lgs. 342/99 di disporre la sanatoria dell’anatocismo per i contratti in essere e per quelli stipulati sino alla data della delibera del CICR, si sottolinea che il decreto legislativo adotta una soluzione difforme rispetto
alla disciplina di cui al 1283 c.c.
Ora, il decreto legislativo, in quanto atto avente forza di legge, può abrogare disposizioni di legge imperativa, ma è inammissibile un’abrogazione implicita, che esuli dalle direttive della legge delega e che non sia dalla stessa né prevista né autorizzata. Inoltre la L. 128/98, art. 2, lett. e, nel dettare i criteri e principi direttivi generali della delega legislativa di cui all’art. 76 Cost., dispone che «all’attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o decreto legislativo si provvederà, se la modificazione non comporta ampliamento della materia regolata, apportando le corrispondenti modifiche alla legge o al decreto legislativo di attuazione della direttiva di modifica». È evidente che un decreto legislativo che intervenga sul contenuto di una norma civilistica quale l’art. 1283 cc imponendo un concetto di ‘parificazione’ addirittura in contrasto con la realtà tra tassi passivi elevatissimi e tassi attivi infimi certamente realizza una modificazione della materia regolata eccedendo la delega ricevuta, così come proibito dalla Legge n. 128/98.
-ART. 2, dove si dispone l’inviolabilità dei diritti e l’inderogabilità della solidarietà economica, perché riconoscere legittimità a una norma che consenta di sottoscrivere validamente la clausola della capitalizzazione trimestrale degli interessi considerando parificati gli interessi passivi e quelli attivi nonostante siano di entità di gran lunga diversa equivarrebbe a formalizzare la violazione di ogni diritto e principio di solidarietà economica, essendo – si auspica – i diritti e la solidarietà incompatibili con il ‘garantire’ che le banche possano perpetuare tali illeciti conseguendone un enorme quanto anch’esso illecito arricchimento a fronte di un parallelo impoverimento dell’intera società.
ART. 3, dove, premessa la pari dignità dei cittadini, si indica tra i compiti della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli economici che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale, perché l’art. 25 d. lgs. 342/99 introduce – quale irragionevole effetto di una ‘parificazione’ che non
tiene conto della diversità dell’entità dei tassi passivi e attivi e della sussistenza di una pari somma all’attivo e al passivo – una diversa disciplina delle clausole sulla capitalizzazione degli interessi passivi in ordine ai rapporti di conto sorti prima e dopo l’emanazione della delibera delegata al CICR.
Una fortissima discriminazione che si estende poi anche al profilo soggettivo della norma, ovvero alla differenza di trattamento assicurata alle banche a scapito dei cittadini così garantendo – peraltro – una iper-tutela (forse degna di miglior causa) al soggetto forte
anziché al soggetto debole del rapporto contrattuale. Violazione del principio di uguaglianza mediante l’art. 25 che implica poi la
violazione anche del principio di ragionevolezza: corollario del principio di uguaglianza e limite al potere discrezionale del legislatore.
Nell’ipotesi in esame, ove il fine del legislatore fosse stato quello di integrare e correggere le norme del TUB per eliminarne eventuali carenze o discordanze, sarebbe stato del tutto irragionevole inserire disposizioni che, come l’art. 25, diano origine alle macroscopiche e
superflue discriminazioni sostanziali nell’entità dei tassi sopra delineate.
Sotto altro profilo vi è violazione dell’art. 3 della C. quanto ai principi di ragionevolezza ed eguaglianza in rapporto all’art 1283 cc, che stabilisce il principio generale di divieto dell’anatocismo, e l’art 2 della deliberazione CICR 9.2.2000 che, in deroga all’art 1283 cc,
laddove, nell’ammetterlo quando lo sia pratichi sia al passivo che all’attivo non si disponga, per rendere reale la parificazione, che debba essere uguale anche l’entità dei tassi, trascurando così che i tassi passivi sono stati, negli ultimi dieci anni, 16,44 volte multipli di quelli attivi (13,32% quelli passivi e 0,81% quelli passivi). -ART. 24, laddove prevede il diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
Le disparità di trattamento frutto della diversità quantitativa dei tassi all’attivo e al passivo e/o della inesistenza all’attivo e al passivo di pari somme alle quali applicarli causano che l’art. 25 d. lgs. 342/99, oltre a violare il diritto di uguaglianza sostanziale dei cittadini dinanzi alla
legge, si ripercuota, di riflesso, anche sul diritto alla difesa di cui all’art. 24, laddove si dispone la libertà a tutti riconosciuta all’azione giudiziale per la tutela dei propri diritti ed interessi. Il disposto dell’art. 25 cioè, ammettendo per i contratti di conto corrente sottoscritti
successivamente all’entrata in vigore della delibera CICR del 2000 la legittimità della capitalizzazione degli interessi nonostante la loro disparità, impedisce al correntista una sua azione in giudizio volta a ottenere la ripetizione di quanto indebitamente versato in virtù della
periodica ripetuta capitalizzazione di interessi quantitativamente diversi. Né il correntista può adeguatamente difendersi contro un istituto di credito che agisca giudizialmente in virtù dell’ammissibilità dell’anatocismo pur in presenza di tassi diversi o in assenza di pari somme all’attivo e al passivo, vedendo la propria posizione pregiudicata rispetto a quella della banca, favorita dall’art. 25.
Anche con riferimento alla violazione dell’art. 24 Cost. si verifica un contrasto con il principio di ragionevolezza, dal momento che lo scopo perseguito dal decreto legislativo – integrazioni e correzioni al Testo Unico bancario – non legittima una discriminazione del diritto di difesa.
–ART. 41, dove dispone che: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»;
-ART. 47, dove dispone che: «La repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
La norma in oggetto, infatti, nel disporre un’equiparazione che non tiene conto del quantum del tasso attivo e passivo e della presenza di somme pari all’attivo e al passivo, legittima un tipo di iniziativa economica privata in nettissimo contrasto con l’utilità sociale e che arreca danni enormi alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana perché ha travolto l’economia togliendo alla società i mezzi economici per realizzare alcuna sicurezza, libertà o dignità al sol fine di dirottare illecitamente a vantaggio delle banche i profitti dell’operare sociale ovvero – in antitesi a quanto voluto dall’art. 41 e 47 – gran parte del denaro che è circolato dalla sua entrata in vigore.
-ART. 102, dove stabilisce le funzioni e fissa il principio di integrità delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria.
-ART. 117, dove, anche con riferimento all’ordinamento comunitario (in ispecie l’art 6 CEDU), non consente al Legislatore di interferire nell’amministrazione della Giustizia.
Quanto all’art. 102, il legislatore non può infatti modificare l’ordinamento imponendo un tipo di parificazione materialmente impossibile al solo scopo di bloccare un orientamento giurisprudenziale sgradito a un particolare soggetto sociale: le banche.
Quanto all’117, primo comma, è violato anche in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955, n. 848.
Sempre in relazione all’impossibile parificazione del tasso attivo e passivo quando siano di diversa entità, va evidenziato che l’art. 6 della CEDU, nel sancire il diritto a un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato
contraente, nell’interpretazione della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla
disposizione interpretata un significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato, ricorrendo a una falsa parificazione, una norma interpretativa favorevole alle banche con l’intento di eludere così un orientamento della Corte di Cassazione, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili nella fattispecie «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
L’intervento normativo è stato effettuato per realizzare una finalità di parte, e non certo per l’esigenza di disciplinare situazioni che lo richiedessero, e si concreta quindi in un’opera rivolta – attraverso una falsa parificazione – a sottrarre le banche all’avanzare di una giurisprudenza ad esse sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente illegittima e sempre più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.
Si solleva quindi – laddove non stabiliscono che qualunque forma di ‘parificazione’ in relazione al periodo e alla modalità di calcolo degli interessi attivi e passivi deve prevedere, per essere legittima, la parità del tasso di interesse attivo e passivo e la sussistenza di somme
pari all’attivo e al passivo – la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 70, 76, 77, 2, 3, 24, 41, 47, 102 e 117 della Costituzione, da parte:
-1) del comma 2, dell’art. 120, del D.Lgsl 1.9.1993, n. 385 – in Suppl. ordinario n. 92 alla Gazz. Uff., 30.9.93, n. 230, (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) – come modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4.8.1999, n. 342, che recita: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori» e dell’art. 2, della Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) 9.02.2000, in Gazz. Uff., 22 febbraio, n. 43, titolato: «Modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (art. 120, comma 2, del testo unico bancario, come modificato dall’art. 25 del decreto legislativo n. 342/1999)» che statuisce: «Conto corrente.
1. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità.
2. Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori.
3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica». Si chiede in conseguenza che il G.I., sospeso il processo ed emesso ogni provvedimento inerente opportuno e consequenziale, voglia sollevare la suesposta questione di illegittimità costituzionale e rinviare la questione alla Corte Costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la questione, disponga l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico Ministero nonché al Presidente del Consiglio dei ministri con comunicazione dell’ordinanza anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.
-4) ILLEGITTIMITA’ DELL’Innalzamento del tasso USURAIO.
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 41,42, 47, 102 e 117 della Costituzione, dell’art 8, comma 5, lett. d, decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, (in Gazz. Uff., 13 maggio 2011, n. 110), titolato «Decreto
convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106. – Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia», convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106:, che stabilisce: «all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, le parole: “aumentato della metà.” sono sostituite dalle seguenti: “aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori
quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali».
La legge 7.3.96, n. 108 (Disposizioni in materia di usura), stabilisce (stabiliva) infatti che il tasso è usurario quando supera di oltre il 50% i tassi medi per settore. Sennonché è intervenuto il decreto legge del 13 maggio 2011, n. 70, c.d. «decreto sviluppo», convertito nella legge 12.7.2011, n. 106, che ha modificato il metodo di calcolo del «tasso soglia» o «tasso di usura», precedentemente disciplinato dall’articolo 2, comma 4, legge 108/1996.
«Decreto sviluppo» che ha alzato la soglia del tasso di usura con conseguenze gravissime, visto che le banche si mantenevano – e solo in virtù di gravi artifizi – sotto il «tasso soglia», per cui è automatico ora il principiare di una strategia di innalzamento silente dei tassi.
In sostituzione del criterio di cui alla vecchia legge n. 108/1996, la nuova, truffaldina norma ha previsto due criteri, il primo dei quali è (incredibilmente in una norma) solo rivolto a generare confusione per fare apparire la norma meno grave di quello che è.
Secondo infatti il primo criterio (quello ‘fumogeno’) si ha usura quando il tasso medio sia superato del 25% + 4 punti.
Si ha invece usura in base al secondo criterio (quello che conta) quando il tasso medio si superato di 8 punti.
Due criteri che giocano in maniere diverse secondo l’entità del tasso, salvo che il primo gioca in relazione a tassi molto elevati che esistono solo nella prassi dei crediti al consumo. Per fare però l’esempio che interessa il maggior numero di italiani, nei mutui a tasso variabile, ora (ottobre 2011) in media del 2,79%, prima, per verificarsi l’usura, la banca doveva praticare il 4,18%, ora invece il 10,79%.
Tutto ciò allo scopo evidente e notorio di evitare alle banche le sempre più numerose condanne per usura, e per consentir loro, ora che non c’è più il baluardo del ‘tasso soglia’, il predetto aumento strisciante del costo del denaro (in pratica un legislatore dedito agli
interessi privati). (‘Fumogeno’, uno dei due criteri, perché, se il tasso medio fosse ad esempio del 20%, con la legge vecchia il tasso usuraio sarebbe del 30%, mentre, con il primo criterio della legge nuova, sarebbe del 29% (20 + 5 + 4 = 29), ma con i ‘benefici’ frutto del secondo, del 28% (20 + 8 = 28). Si è voluta insomma dare la sensazione che, in certi casi – in presenza cioè di tassi medi che investono un coacervo di somme complessive minore, quali certi prestiti al consumo – vi sia un vantaggio, laddove quello che si è inteso in realtà fare è stato innalzare il tasso usuraio in relazione al grosso dei finanziamenti, e cioè in relazione ai mutui e agli affidamenti in conto corrente.) Una norma fatta ovviamente non per gli usurai ‘normali’ i quali, secondo i tassi che praticano, possono o no esserne avvantaggiati, ma in favore delle banche. Una norma ancor più grave di quel che sembra perché l’usura rappresenta la forma estrema
del signoraggio secondario, che è già di per sé un crimine di straordinaria gravità, anzi il più grave dei crimini. Le banche infatti non hanno alcun diritto agli interessi che pure incassano da sempre. La banca, cioè, presta denaro non suo, e non c’è nessuna ragione giuridica perché gli interessi non debbano andare ai proprietari dei soldi. Ripetendo concetti già molte volte svolti, se Tizio dà a Caio un assegno di 1.000 euro il primo gennaio e Caio lo versa immediatamente presso la sua banca, a Tizio i 1.000 euro saranno
stornati immediatamente, e a Caio saranno accreditati nel migliore dei casi dopo 3 o 4 giorni. Giorni di ‘intervallo’ durante i quali i 1.000 euro frutteranno interessi al sistema bancario, che non è mai stato proprietario dei soldi. Più analiticamente, se Tizio versa su una banca 100.000 euro, essa banca tratterrà il 2% circa come riserva, e presterà il 98% che, una volta depositato in un’altra banca, di nuovo, a
cascata, sarà prestato al 98% all’infinito.
Finché, non la singola banca, ma il sistema bancario, attraverso un giro di prestiti di un importo ogni volta più basso del 2%, avrà azzerato i 100.000 euro iniziali, ma avrà incassato gli interessi su prestiti per 5.000.000. Un usare 50 volte sempre lo stesso denaro che serve a monetizzare la società, ma serve poi alle banche per imporre illecitamente interessi su ognuno di questi prestiti di denaro altrui,
per i quali hanno diritto solo a dei compensi per il servizio (che già riscuotono) dovendo gli interessi andare ai proprietari del denaro.
Un gravissimo sistema che è poi (si consenta la digressione) ciò da cui discende l’attuale anch’esso illecito sistema fiscale, perché la sua principale funzione è costringere i cittadini a finanziare l’‘acquisto’ (in realtà non è né un acquisto né un prestito né uno ‘sconto’, ma solo
un volgare crimine) delle banconote da parte dello Stato (che già gli appartengono) presso le banche centrali (signoraggio primario), sicché, in sostanza, il fisco serve a raccogliere, attraverso le imposte e tasse, denaro già inverato (oppure titoli corrispondenti) da usare per il pagamento del denaro da ‘comprare’ (inverare/coprire). Tasse e imposte che non serviranno più quando lo Stato non dovrà più ‘comprare’ il denaro, ma lo stamperà e se lo farà pagare\coprire\inverare dalla collettività con beni o servizi corrispettivi.
Un sistema in cui può credo bastare un’unica imposta (potremmo definirla la «generale») da pagarsi – senza compensazioni tra dare e avere – sui consumi di beni o servizi. Meccanismi fraudolenti che, tra signoraggio primario e secondario, processi inflattivi a loro vantaggio, tasse evase e fiscalità illecita, sversa fiumi di denaro nelle banche, la cui esistenza è quindi basata su denaro accumulato nel tempo illecitamente.
Un sistema rispetto al quale la magistratura non può continuare ad addurre – incredibilmente – di non avere giurisdizione perché si tratta di una serie mostruosa di volgari crimini, uno più grave dell’altro, e la tesi che la giustizia non abbia giurisdizione in materia di crimini sarebbe originale se non fosse raggelante.
Orbene, è in questo bel quadro, come se non bastasse, che il signoraggio secondario, ovvero questo lucrare interessi cinquantuplicati sui prestiti di denaro altrui, viene per di più spinto alle sue estreme conseguenze mediante l’usura, che è sinonimo di «signoraggio secondario
usuraio».
In pratica, già il di per sé il signoraggio secondario è un crimine. Ad esso – con la nuova norma – si aggiunge poi che il tasso sul denaro altrui (un tasso da signoraggio, un tasso non dovuto, un tasso estorto con la compiacenza dei poteri) viene portato alle estreme
conseguenze innalzando il tasso soglia.
Non è difficile osservare a questo punto come la norma impugnata – nel punto in cui addirittura rende legittimo, senza alcuna motivazione degna di considerazione, il tasso (già di per sé illegittimo) che era fin qui considerato usuraio, aggravando ulteriormente l’estremistico
sfruttamento della società da parte delle banche – confligge con ogni articolo della Costituzione e, in particolare:
Con l’art. 1, perché svuota di ogni (residuo) contenuto l’asserzione che l’Italia sia una Repubblica democratica fondata sul lavoro, o che la sovranità appartiene al popolo, perché fa sì che il paese sia di fatto una dittatura delle banche fondata sulla collusione dei poteri in
danno della collettività.
Con l’art. 2, perché vanifica l’affermazione che la Repubblica riconosca e garantisca i diritti inviolabili dell’uomo e richieda l’adempimento (non lo richiede certo alle banche) dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Con l’art. 3, perché, ben lungi dal garantire alcuna dignità e uguaglianza, fa sì che i cittadini siano uguali solo nel non avere alcun ricorso effettivo contro le mostruose prevaricazioni bancarie.
Con l’art. 4, perché toglie significato al diritto al lavoro e rende anzi sempre più difficili le condizioni per la sua attuazione.
Con l’art. 24 perché la norma in questione inibisce l’azione giudiziaria per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e rende inefficace l’azione difensiva.
Con l’art. 35 perché la Repubblica è ostacolata da questa legge nel tutelare il lavoro, perché le risorse pubbliche è private vengono in gran parte sottratte indebitamente dalle banche.
Con l’art. 41, perché la norma in oggetto consente alle banche di operare – così come vietato – in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Con l’art. 42, perché questa norma incide gravemente sulla proprietà privata dei cittadini e delle Istituzioni, non sussistendo soggetti che non siano vittima dell’operato delle banche.
Con l’art. 47, dove prevede che «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina e controlla l’esercizio del credito», perché tale norma, al contrario, distrugge il risparmio e consente l’esercizio delle forme di credito più arbitrarie e lesive.
Con gli artt. 102 e 117 primo comma, violato anche in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955, n. 848.
Ciò perché l’art. 6 della CEDU, nel sancire il diritto a un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della CEDU e della giurisprudenza europea, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per una delle parti, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».
Il legislatore nazionale, invece, ha emanato una norma interpretativa favorevole alle banche nonostante un orientamento della Corte di Cassazione non favorevole alle banche, così violando il principio di ‘parità delle armi’, non essendo certo prefigurabili nella fattispecie «ragioni imperative d’interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
Sempre più numerose erano infatti negli ultimi anni le sentenze di merito, e soprattutto della Cassazione, che dichiaravano l’illegittimità dei criteri di calcolo della soglia c.d. usura indicati nelle numerose circolari della Banca d’Italia, in quanto era basato su una interpretazione sbagliata della legge n. 108/96.
Tali pronunce giurisprudenziali avevano finalmente chiarito che la commissione di massimo scoperto andava conteggiata insieme a tutti gli altri oneri del conto ai fini della verifica del superamento del tasso soglia ex lege 108/96.
In tale senso si legga quanto stabilito dalla Corte di Cassazione penale sez. II in data 19 febbraio 2010 n. 12028 «Ai fini della determinazione della fattispecie di usura, il chiaro tenore letterale dell’art. 644, comma 4, c.p. impone di considerare rilevanti tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito; tra essi rientra la commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo collegato all’erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il client utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l’onere, a cui l’intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente ».
Nello stesso senso si legga anche Cassazione penale sez. II del 14 maggio 2010 n. 28743: «Nella determinazione del tasso di interesse, ai fini di verificare se sia stato posto in essere il delitto di usura, occorre tener conto, ove il rapporto finanziario rilevante sia con un istituto di credito, di tutti gli oneri imposti all’utente in connessione con l’utilizzazione del credito, e quindi anche della “commissione di massimo scoperto”, che è costo indiscutibilmente legato all’erogazione del credito».
Ebbene, naturalmente in tali procedimenti giurisdizionali che adottavano la corretta interpretazione della legge c.d. ‘antiusura’ venivano inevitabilmente riscontrati superamenti da parte della banca dei c.d. tassi soglia. Ciò rischiava di suscitare un contenzioso contro le banche da parte dei numerosissimi clienti a cui erano stati applicati tassi tassi di interesse usurai, ma risultati fin lì ‘legittimi’ a causa
dell’errore nella interpretazione della legge antiusura. A questo punto e in tale contesto giurisprudenziale si inserisce il ‘tempestivo’ intervento del legislatore, che ha risolto il problema (alle banche) alzando il tasso soglia.
Gli interventi normativi di cui si evidenzia l’incostituzionalità, in sostanza, non sono stati causati dall’esigenza o dall’intento di disciplinare una situazione che lo richiedesse, ma sono invece frutto di una palese opera lobbistica rivolta a sottrarre le banche all’avanzare di una
giurisprudenza a esse sfavorevole, ovvero a ridare ‘veste di legalità’ a una pratica gravemente illecita e sempre più spesso ritenuta tale dalla giurisprudenza.
Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale dell’art 8, comma 5, lett. d, decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, (in Gazz. Uff., 13 maggio 2011, n. 110), convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 2011, n. 106, titolato: «Semestre Europeo. Prime disposizioni
urgenti per l’economia.», che stabilisce: «all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, le parole: “aumentato della metà.” sono sostituite dalle seguenti: “aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali», per violazione degli artt. 2, 3, 24, 41,42, 47, 102 e 117 della Costituzione.
Si chiede in conseguenza che il G. I., previa sospensione del processo e l’emissione di ogni ulteriore provvedimento inerente opportuno e consequenziale, voglia sollevare la suesposta questione di illegittimità costituzionale e rinviarla alla Corte costituzionale con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi dell’istanza con cui la questione è stata sollevata, disponga la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospenda il giudizio in corso ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata alle parti in causa e al Pubblico Ministero, quando il suo intervento sia obbligatorio, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale. corso ordinando che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata alle parti in causa e al Pubblico Ministero, quando il suo intervento sia obbligatorio, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, con l’emissione di ogni ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.
-5) ILLEGITTIMITA’ DELLA RI-INTRODUZIONE DELLA COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO.
Non è manifestamente infondatezza la questione di illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 2, 3, 41, 47 della Costituzione – dell’art 1, all. 1, legge 28.1.2009, n. 2 (in Suppl. ordinario n. 14, alla Gazz. Uff., 28.1.2009, n. 22), titolata: «Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185», nella parte in cui ha introdotto l’art 2 bis, comma 1, nel decreto legge 29 novembre 2008 n. 185, articolo poi modificato (il detto 2 bis, comma 1, DL. 185\2008) dall’art. 2, comma 2, del D.L. 01\07\2009, n. 78 (convertito, quest’ultimo DL, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102), illegittimo nella parte in cui esso 2 bis, comma 1 («Ulteriori disposizioni concernenti contratti bancari»), ha disposto legittimamente che:
«Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto», proseguendo poi però specificando illegittimamente che: «se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi i assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente, e sia specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento. L’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione.
Il Ministro dell’economia e delle finanze assicura, con propri provvedimenti, la vigilanza sull’osservanza delle prescrizioni del presente articolo». Orbene, con l’art. 1, all. 1, legge 28.1.2009, n. 2, che ha introdotta l’art. 2 bis, comma 1, del decreto legge n. 185, del 2008, il nostro legislatore, indifferente allo stridente contrasto con il clamoroso superamento giurisprudenziale della commissione di massimo scoperto, la reintroduce imponendola per legge per di più incrementandone il costo.
Sennonché la norma che l’ha introdotta è illegittima, per cominciare, per gli stessi motivi per i quali la giurisprudenza ha già variamente qualificato illegittima la cms. La cms, cioè, si giustificava – ma solo secondo le banche – perché la banca che concede un
‘fido’ deve predisporre una disponibilità finanziaria, indipendentemente dall’effettivo prelevamento, e veniva applicata sia nelle aperture di credito in conto corrente che negli affidamenti occasionali, quali scoperti e sconfinamenti senza fido.
Nell’art. 7,3 delle NUB (norme bancarie uniformi ), la cms era solo citata, ma non disciplinata, ed era infatti affidata ai «criteri concordati con il correntista o usualmente praticati dalle banche sulla piazza con le valute indicate nei documenti contabili o comunque negli estratti conto». La circolare del 3.2. 1995 dell’ABI, nel dettare le nuove norme per i contratti di corrispondenza e servizi connessi, prevedeva (quale simulacro della possibilità per il cliente di ‘concordare’ l’entità della cms) che nell’intestazione della proposta contrattuale predisposta per il cliente fosse previsto uno spazio per l’indicazione del suo ammontare.
Le Istruzioni della Banca d’Italia precedenti al 2009, alla sez. I, C/5, intitolata Metodologia di calcolo della percentuale della commissione di massimo scoperto, illustravano: «Tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto.
Tale compenso — che di norma viene applicato allorché il saldo
del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni — viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento». In sostanza un’assurdità che ha acuito, alla fine, i dubbi della giurisprudenza circa la sua legittimità. Un’assurdità perché la cms è nulla per mancanza di causa, visto che si sostanzia in un ulteriore illegittimo addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente previsti per l’utilizzo dell’apertura di credito.
Una situazione in cui sono divenute sempre più numerose le sentenze che condannavano gli istituti di credito alla sua restituzione considerandola priva di una legittima causa petendi e frutto di un incremento surrettizio del tasso di interesse passivo pattuito e come negozio in frode alla legge.
Ragioni per cui infine, anche il Governatore della privata organizzazione illecita abusivamente denominata Banca d’Italia, il 31.5.2008, espresse l’auspicio che si procedesse alla sua sostituzione («un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza»), con «una commissione commisurata alla dimensione del fido accordato».
Buon ultimo, anche il presidente dell’Antitrust, il 24.6.2008, nella Relazione annuale afferma: «Va affrontato il tema della commissione di massimo scoperto», definendola «prassi iniqua e penalizzante per i risparmiatori e per le imprese deve essere abolita».
Censure alle quali sono seguiti generalizzati interventi tardivamente moralizzatori (senza che nessuno abbia però mai parlato di restituzione), tra cui quelli dell’Autorità Garante per la Concorrenza.
Finché è intervenuto il ‘legislatore’ che, peraltro con piglio riformatorio, non fa invece altro che reintrodurla e incrementarla.
La prima parte del comma 1, art. 2 bis, ribadisce infatti che la cms va calcolata sul picco del credito effettivamente utilizzato dal cliente introducendo però due novità:
a) La fissazione ex lege del limite temporale minimo di 30 giorni di esposizione a debito, mentre prima bastava anche un giorno, anzi un momento.
b) L’applicabilità solo ai contratti di apertura di credito e solo sul fido effettivamente utilizzato nell’ambito dell’affidamento accordato, escludendo quindi l’applicazione agli scoperti di conto corrente e agli sconfinamenti tollerati dalla banca oltre l’ammontare dell’affidamento.
La seconda parte del comma 1 disciplina invece la provvigione d’affidamento («quale corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme» e, dunque, indipendente dall’utilizzo delle somme messe a disposizione), subordinandone la validità a varie condizioni
che non diminuiscono né l’illegittimo danno per il cliente né gli altrettanto illegittimi benefici per le banche, ovvero stabilendo che il corrispettivo sia:
a) predeterminato unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate;
b) oggetto di patto scritto non rinnovabile tacitamente;
c) determinato in misura onnicomprensiva rispetto a ogni altra voce di costo;
d) determinato in misura proporzionale all’importo credito accordato ed alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente.
L’art. 2,2 d.lgs. 1 luglio 2009, n. 78 ha poi aggiunto, all’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 2-bis decreto legge n. 2 del 2009, che il corrispettivo onnicomprensivo di cui al periodo precedente non può comunque superare lo 0,5%, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione.
In sostanza, nel mentre la giurisprudenza e gli organi di vigilanza muovevano rilievi sempre più critici miranti all’abolizione della cms, il ‘legislatore’, come nulla fosse, è intervenuto per aumentarla.
La norma in esame cioè, al primo periodo dell’art. 2 bis, L. 28.1.2009, n. 2 (ex comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 185/2008), ribadisce la cms in senso stretto così come praticata nella precedente illegittima prassi bancaria, ma, al secondo e terzo periodo dello stesso comma, introduce una remunerazione per la messa a disposizione dei fondi, che qualifica «commissione di affidamento» o «commissione sull’accordato», proprio allo scopo di distinguerla dalla cms in senso stretto.
Questioni tutte molto gravi e cariche di profili di non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale.
In particole l’art. 2 bis, decreto legge n. 185 del 2008, come modificato dall’art. 2, comma 2, decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito in legge in legge n. 102 del 3/08/2009 viola la Costituzione agli:
-ART. 2, dove riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e l’inderogabilità della solidarietà sociale ed economica e di buona fede nell’art. 2 Cost., immanente all’intero ordinamento giuridico per diritto vivente della Corte di Cassazione (Sez. Unite n. 26724 del 2007, Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 2009). Tale norma, infatti, in un periodo tra l’altro di grave crisi economica per le famiglie, per i singoli cittadini e per il Paese nel suo complesso, fornisce agli istituti bancari strumenti normativi, non solo per il mantenimento in vita, ma per l’aggravamento di istituti pacificamente riconosciuti illegittimi e lesivi del risparmio e delle condizioni economiche, perché è dimostrato anche da rilevazioni effettuate da istituzioni pubbliche (Commissione 6a del Senato della Repubblica, AGCM ecc.) che tale normativa ha dato luogo a un incremento di voci di costo in conto corrente e a un incremento del costo della ‘vecchia’ cms.
-ART. 3, dove, premessa la pari dignità dei cittadini, si indica tra i compiti della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli economici che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione
politica, economica e sociale. Principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge violato perché distingue la posizione dei clienti rispetto a quella delle banche, favorendo un loro indebito arricchimento a scapito dei clienti. Inoltre la possibilità, concessa dal punto 3, per le banche di adeguarsi unilateralmente entro centocinquanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto è espressione di un favor del legislatore in favore degli istituti di credito e contro i correntisti, perché avrebbe richiesto quel giusto motivo indispensabile quale requisito per le variazioni unilaterali delle condizioni di conto corrente, e anche ciò viola il principio di uguaglianza sostanziale e di tutela del soggetto debole.
Censure fatte implicitamente proprie, con nota del 29.12.2009, anche dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, secondo la quale: «sia per gli affidamenti che per gli scoperti transitori di conto corrente, successivamente all’entrata in vigore dell’articolo 2-bis, comma 1, del D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni in legge n. 2 del 2009, si è verificato un innalzamento dei costi per i correntisti».
Violazione del principio di uguaglianza alla quale segue la violazione anche del principio di ragionevolezza, che ne è corollario, perché la discrezionalità di cui il legislatore è dotato nel dettare le norme trova appunto il suo limite nella loro ragionevolezza.
Il legislatore, cioè, di fronte alle sempre più numerose prese di posizione contro la cms, avrebbe dovuto dichiararne illegittimità, non certo la legittimità allo scopo di conservare – contro tutti – quel contestatissimo vantaggio alle banche. Condotta del legislatore che appare
quindi del tutto irragionevole anche sotto questo profilo.
-ART. 41, dove stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale e quando afferma che la proprietà privata e riconosciuta e garantita dalla legge.
-ART. 47, dove si legge che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio e disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.
La norma in questione, implicando una grave perdita consistente nell’aggravio della già illegittima cms introduce una grave lesione del principio della tutela costituzionale del risparmio e dell’iniziativa economica privata, dato l’irragionevole favore accordato alla pratica
oligopolistica e di cartello della cms, e mina così la stabilità dei prezzi nell’intero sistema economico, erodendo l’entità del risparmio.
Finanche la Banca d’Italia (e tutto dire, visto che è di proprietà delle banche che ha qui censurato), nei Risultati della rilevazione sulle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e scoperti di conto, pubblicata il 13.2.2010, scrive:
«Considerando le segnalazioni delle singole banche, si osserva che in un numero non ridotto di casi il passaggio dalle vecchie alla nuove previsioni contrattuali ha prodotto un peggioramento delle condizioni per la clientela.
Ciò è vero, in particolare, per i conti non affidati delle famiglie (fig. 1): in media si registra nei diversi scenari un peggioramento delle condizioni nel 29 per cento dei casi; in uno scenario (il n. 5), contraddistinto da uno scoperto di importo contenuto (€ 300) per una durata prolungata (30 giorni), nei tre quarti dei casi si osserva un peggioramento. Nel caso dei conti affidati delle imprese i casi di peggioramento sono meno frequenti (12 per cento in media).
Le poche banche che, già a fine 2008, non applicavano la CMS segnalano condizioni tendenzialmente stabili sui conti non affidati, mentre l’introduzione di commissioni per la messa a disposizione di fondi sui conti affidati ha determinato un incremento degli oneri mediamente nel 30 per cento dei casi (fig. 2).
5. Conclusioni
Le variazioni contrattuali introdotte dalle banche a seguito degli interventi normativi hanno comportato, in media, una diminuzione degli oneri per commissioni, sia per i conti non affidati sia, soprattutto, per i conti affidati; peraltro, in un numero non ridotto di casi il passaggio dalla vecchia alla nuova struttura commissionale ha prodotto un peggioramento delle condizioni per la clientela.
Nel complesso, i benefici netti per i correntisti potrebbero essere inferiori a quelli stimati se compensati da incrementi nei tassi d’interesse e nelle voci generali di costo del conto corrente. Soprattutto per i conti non affidati, per i quali la legge ha sancito la nullità della commissione di massimo scoperto, la varietà di commissioni introdotte in sua sostituzione ha ridotto il grado di comparabilità del costo dello scoperto di conto».
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Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 2, 3, 41, 47 della Costituzione – dell’art 1, all. 1, della legge 28 gennaio 2009 n. 2 (in Suppl. ordinario n. 14, alla Gazz. Uff., 28 gennaio, n. 22), titolata: «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185», nella parte in cui ha introdotto l’art 2 bis, comma 1, nel decreto legge 29 novembre 2008 n. 185, articolo (il detto 2 bis, comma 1, DL. 185\2008) poi modificato dall’art. 2, comma 2, del D.L. 01\07\2009, n. 78 (convertito, quest’ultimo DL, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102), illegittimo limitatamente alla parte in cui (il 2 bis, comma 1: «Ulteriori disposizioni concernenti contratti bancari»), dopo aver legittimamente disposto che: «Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto», prosegue poi però specificando illegittimamente che: «se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente
titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente, e sia specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento. L’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione. Il Ministro dell’economia e delle finanze assicura, con propri provvedimenti, la vigilanza sull’osservanza delle prescrizioni del presente articolo».
Si chiede in conseguenza che il GI, previa sospensione del processo e l’emissione di ogni ulteriore provvedimento inerente, opportuno e consequenziale, voglia sollevare la predetta questione di illegittimità costituzionale e rinviarla alla Corte costituzionale, con emissione di
ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell’istanza con cui è stata sollevata la questione, ordini che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa, al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.