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Marra ad avv.: L. Pinto, ricorso tipo x incostituzionalità commisurazione indennizzo a valore causa.

 

Marra agli avvocati: Legge Pinto, ricorso tipo per incostituzionalità della commisurazione dell’indennizzo al valore della causa. Ovvero illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis, c. 3, legge n. 89\24.3.2001 — introdotto dall’art  55 co. 1 lett. b) D. L. 22.6.2012 n.83, convertito con legge 7.8.2012 n.134 — per violazione degli artt 3 e 117 della Costituzione in relazione all’art. 6 C.EDU.

 

 

Non sussiste manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, legge n.89/24.3.2001 — introdotto dall’art. 55 co. 1 lett. b) D. L. 22.6.2012 n.83, convertito con legge 7.8.2012 n.134 — per violazione degli artt 3 e 117 della Costituzione in relazione all’art. 6 C.EDU e del principio della ragionevolezza L’art 2-bis, comma 3, L. 89/2001, come modificato dalla L. 134/12 recita: «Art. 2-bis. Misura dell’indennizzo. … omissis … 3. La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice».

 

 

PREMESSE GENERALI

 

 

La questione di incostituzionalità nasce quando, nel giudizio presupposto di durata irragionevole, il ricorrente sia stato soccombente o gli sia stata liquidata una modesta somma.

 

 

Infatti, la nuova disciplina in tema di equa riparazione — per effetto delle modifiche recate alla legge 89/24.3.2001 dall’art. 55 del DL n. 83/22.6.2012, (Misure urgenti per la crescita del Paese: c.d. decreto Sviluppo), convertito in legge n. 137/7.8.2012, e in particolare per effetto della norma, decisamente innovativa, contenuta nel nuovo art. 2-bis, comma 3, L. n. 89/2001 (a monte della quale, «la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del
diritto accertato dal giudice») — porta al mancato riconoscimento, in caso di soccombenza nel giudizio presupposto, di alcun indennizzo, e comunque ad indennizzi non superiori al liquidato quale che sia stata la durata del giudizio presupposto.

 

 

Un criterio addirittura antitetico a quello voluto in sede comunitaria, dove la misura della liquidazione dell’equo indennizzo è (correttamente) legata alla durata irragionevole, a prescindere dall’esito.

 

 

Per un migliore inquadramento della fattispecie giova prendere le mosse dall’art. 2-bis, comma 2, lett. a), l. cit., secondo il quale «… l’indennizzo è determinato … tenendo conto: a) dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1, dell’art. 2 …».

 

 

Tale norma innova decisamente anch’essa, perché l’originario testo, così come interpretato dalla Cassazione in conformità della Giurisprudenza C.EDU, dava diritto all’equo indennizzo a prescindere dall’esito del processo; e la modestia della controversia o l’inerzia della parte, poteva eventualmente incidere solo sulla misura dell’indennizzo. Con l’unica esclusione del caso in cui il ricorrente aveva agito con la consapevolezza della soccombenza sin dall’instaurazione della causa.

 

 

A fronte di un indirizzo così strutturato, la portata innovativa della previsione di cui all’art. 2-bis comma 2, lett. a) si apprezza sotto un duplice profilo.

 

 

Anzitutto l’esito del giudizio diviene, nella nuova disciplina, preclusivo in caso di soccombenza, e condizionante ai fini della quantificazione dell’indennizzo, e ciò non più in modo eccezionale ma normale, fisiologico, e sganciato da un uso consapevolmente strumentale del processo ad opera della parte.

 

 

In secondo luogo, perché non può considerarsi più necessario, affinché l’esito del giudizio possa assumere un ruolo riduttivo dell’indennizzo, che lo stesso (e soprattutto l’abuso del processo alla base di esso richiesto) sia oggetto di un onere di allegazione e prova da parte dell’amministrazione, potendo e dovendo il giudice ex se – tanto più nel nuovo modello procedimentale a contraddittorio eventuale – sindacare e ponderare l’esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti.

 

 

La norma giunge, nella seconda parte, a stabilire che l’indennizzo non possa essere superiore nemmeno al «valore del diritto accertato dal giudice», ove questo risulti inferiore al valore della causa.

 

 

Alla stregua di tale disposizione l’esito della causa assume dunque un rilievo ben maggiore di quello di mero parametro di commisurazione dell’indennizzo tra il minimo di euro 500 e il massimo di euro 1500 per anno o frazione di anno stabiliti dal primo comma dell’art. 2-bis, imponendo una liquidazione anche al di sotto di tale limite («anche in deroga al comma 1», precisa la norma) ove inferiore ad esso sia appunto il valore del diritto accertato dal giudice.

 

 

Disposizione in cui significato oggettivo induce a ritenere che nulla possa essere liquidato nel caso in cui il diritto fatto valere in giudizio sia giudicato inesistente, finendo, di fatto, per condizionare all’esito almeno in parte vittorioso del giudizio presupposto l’accoglibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata dello stesso.


 

 

Sul piano logico, infatti, non sembra contestabile che, almeno ai fini della norme in esame, l’accertamento negativo della sussistenza di un diritto equivale all’accertamento che il diritto fatto valere in giudizio è inesistente. Mentre in caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non maggiore della somma liquidata dal Giudice nel giudizio presupposto.

 

 

Norma che contrasta con il principio da sempre esplicitamente affermato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, in piena adesione alla stessa, in quella della Corte di Cassazione, secondo cui l’equa riparazione spetta anche alla parte pienamente soccombente.

 

 

Norma che pertanto stravolge il funzionamento e l’impostazione teorica stessa dei fondamenti e della natura del diritto all’equa riparazione e tradisce lo spirito della C.EDU.

 

 

PROFILI SPECIFICI DI INCOSTITUZIONALITA’

 

 

VIOLAZIONE DELL’ART. 3 COST. SOTTO IL PROFILO DELLA  VIOLAZIONE DELL’UGUAGLIANZA SOSTANZIALE E CONCRETA IN
RELAZIONE ALL’ART. 6 C.EDU.

 

 

La norma in esame viola il principio di uguaglianza. Si crea infatti, una ingiustificata discriminazione tra chi ha subito un’irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore e chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato soccombente oppure ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto.

 

 

Ciò si pone in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale. Se infatti è legittimo e conforme alla C.EDU, una riduzione dell’indennizzo nei casi in precedenza esaminati, non è costituzionalmente corretto escludere a priori l’indennizzo comunque non parametrarla alla durata irragionevole.

 

 

Non v’è dubbio infatti che la norma comunitaria (art. 6 C.EDU) nell’interpretazione data dalla Giurisprudenza di Strasburgo, non discrimina il diritto all’equo indennizzo all’esito del processo, ma parametra il risarcimento meramente alla durata del processo medesimo.

 

 

Tra i principi fondamentali della nostra Costituzione merita particolare rilievo quello di eguaglianza (art. 3) e di divieto di discriminazione, sia per il suo significato etico-sociale, sia per il vastissimo campo di applicazione. La solenne proclamazione di cui all’art 3 Cost. ha nel nostro ordinamento un complesso significato giuridico sia perché incide sul contenuto stesso della legge, vietando ingiustificate disparità di trattamento tra cittadini (art. 3, primo comma, Cost.), sia perché garantisce l’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, impegnando la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale ed economico che possono comprimere lo sviluppo e il benessere de soggetti meno protetti (art. 3, secondo comma, Cost.).

 


 

La Corte costituzionale ha fatto larga applicazione del principio in moltissime decisioni, così da eliminare in vari settori dell’ordinamento norme ingiustificatamente discriminatorie, relative a situazioni eguali ovvero omogenee o, per converso, contenenti una disciplina uniforme per fattispecie diverse.

 

 

Il sindacato della Corte inoltre, come già è stato ricordato, si è esteso fino a controllare l’intrinseca ragionevolezza delle scelte legislative, anche indipendentemente dalla comparazione di singole norme.

 

 

Proprio perché la Corte ha utilizzato il principio di eguaglianza con profonda sensibilità e responsabile consapevolezza, l’enunciazione della pari dignità dei cittadini e della loro eguaglianza davanti alla legge è diventata una realtà viva ed operante, con un’incidenza reale sempre maggiore. I numerosi interventi giurisprudenziali, nel pieno rispetto delle competenze discrezionali del legislatore, hanno notevolmente contribuito a realizzare una razionale coerenza del nostro ordinamento democratico.

 

 

Va poi qui ricordato il principio secondo cui nel giudizio di legittimità costituzionale può porsi in questione, con riferimento all’art. 3 Cost., non già la disciplina generale, ma quella ingiustificatamente derogatoria, in quanto la funzione della Corte è diretta a riequilibrare il sistema mediante il ripristino di una disciplina eguale per tutti, con la caducazione di deroghe non sorrette da validi motivi (Ordinanza n. 582/1988).

 

 

Appare quindi macroscopica la disparità di trattamento tra chi ha subito una irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore e chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato socccombente, ovvero ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto.

 

 

VIOLAZIONE DELL’ART. 3 COST. SOTTO IL PROFILO DELLA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA IN RELAZIONE
ALL’ART. 6 C.EDU.

 

 

La norma in esame viola anche il principio di ragionevolezza. Si crea infatti una ingiustificata discriminazione tra chi ha subito una irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore e chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato soccombente, ovvero ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto.

 

 

Se infatti è legittima e conforme alla C.EDU una riduzione dell’indennizzo nei casi in precedenza esaminati, non è costituzionalmente corretto escludere a priori l’indennizzo e comunque non parametrarlo alla durata irragionevole.

 

 

Non v’è dubbio infatti che la norma comunitaria (art. 6 C.EDU) nell’interpretazione data dalla Giurisprudenza di Strasburgo, non discrimina il diritto all’equo indennizzo all’esito del processo, ma parametra il risarcimento alla mera durata dello stesso.

 

 

Piú volte la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare la conformità delle norme denunciate al generale canone della ragionevolezza. Può essere utile ricordare, a riguardo, che la giurisprudenza della Corte, in passato, era orientata nel senso di ricondurre il principio di ragionevolezza all’interno della previsione dell’art. 3 della Costituzione, che afferma, come è noto, il principio di eguaglianza; di modo che la norma irragionevole era costituzionalmente illegittima in quanto apportatrice di irragionevoli discriminazioni. Come
conseguenza di siffatta impostazione era necessario, per accertare  l’irragionevolezza della norma, che fosse individuato il c.d. tertium comparationis.

 

 

Una volta affrancato il principio di ragionevolezza sia dal principio di eguaglianza sia dalla ricerca del tertium comparationis, la Corte ne ha poi potuto affermare la violazione anche in assenza di una sostanziale disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, allorchè la norma presenti una intrinseca incoerenza, contraddittorietà ed illogicità rispetto al contesto normativo (sentenza n. 450/2000) o rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore (sentenza n. 416/2000).

 

 

Al canone della ragionevolezza la Corte è venuta aggiungendo, quali ulteriori criteri del giudizio di legittimità, il canone del bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti ed il canone delle compatibilità finanziarie o di sistema.

 

 

Nel caso di specie nella norma oggetto di censura vi è una palese incoerenza ed illogicità rispetto al contesto normativo, in materia di equo indennizzo, atteso che è irragionevole che chi ha subito una irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore, ha diritto all’equa riparazione, mentre chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato soccombente non ha diritto  

all’equa riparazione e chi ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto, ha diritto all’equa riparazione in misura non superiore a quanto liquidato nel giudizio presupposto.

 


 

 

La discriminazione è illogica e incoerente e non trova alcuna valida giustificazione, atteso che non vi è alcuna ragione per sacrificare chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato socccombente ovvero ha avuto liquidata una somma modesta e chi ha subito una irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore.

 

 

VIOLAZIONE DELL’ART. 117 COST. IN RELAZIONE ALL’ART 6 co 1 C.EDU.

 

 

Il dubbio di costituzionalità della norma suindicata nasce anche dal contrasto con l’art. 6, Par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nella misura in cui tale norma, nella detta interpretazione, può e deve intendersi assurta a parametro di costituzionalità della legge interna per effetto del richiamo operato dall’art. 117 Cost.
Il giudice ha il dovere di «applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di «interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea».

 

 

Ciò è confermato dalla Cassazione a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n. 1340 e n. 1341, quindi avallata anche dalla Corte Costituzionale a partire dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e con numerose successive pronunce, sino, da ultimo, all’ordinanza 7 giugno 2012, n. 150.

 

 

Il Giudice, qualora rilevi un contrasto della norma interna con la norma convenzionale al quale non possa porre rimedio mediante l’interpretazione conforme, è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della prima  in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., poiché è privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in tal senso, proprio in materia di equa riparazione, Cass. 11 marzo 2009, n. 5894).

 

 

Siffatti principi, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da una serie di sentenze del 2010 e dell’inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011, n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93); quindi sono stati ribaditi, quanto all’inesistenza del potere del giudice comune di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza 11 marzo 2011, n. 80, i cui principi sono stati confermati da successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze 8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di recente, hanno ricevuto il conforto della Corte di giustizia (sentenza 24 aprile 2012, n. C- 571/10), secondo la quale «il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa»).


La norma additata a sospetto ha una diretta incidenza nella decisione sulla proposta domanda di equa riparazione: se ne fosse, infatti, confermata la legittimità costituzionale in applicazione della stessa la domanda (come in altri casi analoghi è stato deciso nei precedenti citati) andrebbe rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione tendenzialmente al minimo dell’indennizzo spettante, all’interno del range fissato nel primo comma dell’art. 2-bis e salvo sempre il limite rappresentato dal valore
della causa.

 

 

Quanto alla sua non manifesta infondatezza la stessa appare altresì più che fondatamente predicabile, atteso che, da un lato, non può dubitarsi dell’irriducibile contrasto della norma interna (ripetesi, art. 2- bis comma 3, ultimo inciso, l. 89/2001) con la giurisprudenza della Corte europea sul tema, dall’altro, si deve anche escludere la possibilità di una diversa interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma interna.

 

 

La Corte di Strasburgo ha sempre sottolineato l’irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in sé e per sé considerata, ai fini del diritto alla ‘satisfaction équitable’ dell’art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che la parte, indipendentemente dall’esito della causa, h comunque subito una diminuzione della qualità della vita in conseguenza dei patemi d’animo sopportati durante il lungo arco temporale che ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale.

 

 

Un siffatto principio è da sempre stato ribadito, sotto il vigore della previgente disciplina, dalla Corte di Cassazione essendosi da sempre affermato – come già visto – che il danno non patrimoniale non è escluso dall’esito negativo del processo, ovvero dall’elevata possibilità del rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda, occorre, come pure sopra già accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass. 12 aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile

 

 

2010, n. 8541), del quale deve dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19 gennaio 2010, n. 819).

 

 

Secondo la Corte di Cassazione, per negare l’esistenza del danno, può solo assumere rilievo la «chiara, originaria e perdurante certezza sulla inconsistenza del diritto fatto valere nel giudizio», con l’avvertenza che «non equivale a siffatta certezza originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo della azione» (Cass. 2 aprile 2010, n. 8165; 2008, n. 24269).

 

 

Per tali motivi si solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, legge 24.3.2001 n.89 (introdotto dall’art. 55
co. 1 lett. b) D. L. 22.6.2012 n.83, convertito con legge 7.8.2012 n.134) risultando esso in contrasto con la Costituzione artt. 3 e 117 in relazione all’art. 6 C.EDU e del principio della ragionevolezza.

 

 

Si chiede in conseguenza che l’On. Giudicante, previa sospensione del processo, voglia sollevare la predetta questione di illegittimità
costituzionale e rimetterla alla decisione della Corte Costituzionale.

 

 

Avv. ….

 

 

Ringrazio l’avv. Ginaldo Cucinella della preziosa collaborazione.

 

 

Avv. Alfonso Luigi Marra

 

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