Studio Legale Avv. Alfonso Luigi Marra
Controversie bancarie e tributarie 800660815, studio@marra.it
Riporto di seguito il ricorso tipo per gli avvocati che vogliono sollevare la questione di
costituzionalità della (assurda) norma che ha vietato il pignoramento presso terzi per
il recupero delle somme di cui ai decreti ex legge Pinto.
ALM
TRIBUNALE DI ________________ SEZIONE ESECUZIONI CIVILI
RICORSO ex art. 617 cpc avverso declaratoria di improcedibilità di
pignoramento presso terzi e conseguente estinzione della procedura.
Istante ___________
L’istante propone opposizione avverso il provvedimento di declaratoria di
improcedibilità e conseguente estinzione della procedura di pignoramento
presso terzi e solleva
Questione di anticostituzionalità dell’art. 6, comma 6 del DL n 35
dell’8.4.2013 laddove vieta gli atti di sequestro o di pignoramento presso la
Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la
riscossione coattiva di somme liquidate a norma della legge Pinto.
Non sussiste manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24, 41, 42 e 111, della
Costituzione, dell’articolo 6, co. 6 del DL 8.4. 2013, n. 35 laddove recita:
«Art. 5-quinquies — Esecuzione forzata.
1. Al fine di assicurare un’ordinata programmazione dei pagamenti dei
creditori di somme liquidate a norma della presente legge, non sono ammessi
atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le
Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di somme
liquidate a norma della presente legge.
2. Fermo quanto previsto dall’articolo 1, commi 294-bis e 294-ter, della
legge 23 dicembre 2005, n. 266, i creditori di dette somme, a pena di nullità
rilevabile d’ufficio, eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente
secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura
civile, con atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al
funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento
giurisdizionale posto in esecuzione, con l’effetto di sospendere ogni
emissione di ordinativi di pagamento relativamente alle somme pignorate.
L’ufficio competente presso i Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, a cui sia
stato notificato atto di pignoramento o di sequestro, ovvero il funzionario
delegato sono tenuti a vincolare l’ammontare per cui si procede, sempreché
esistano in contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata; la notifica
rimane priva di effetti riguardo agli ordini di pagamento che risultino già
emessi.
3. Gli atti di pignoramento o di sequestro devono indicare a pena di nullità
rilevabile d’ufficio il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione.
4. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla
Tesoreria centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano
obblighi di accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né
sospendono l’accreditamento di somme a favore delle Amministrazioni
interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono dichiarazione negativa,
richiamando gli estremi della presente disposizione di legge».
Con tale norma il legislatore, adducendo di voler assicurare «un’ordinata
programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate» con la L. 89/01,
ha in realtà impedito l’esecuzione forzata dei decreti Pinto, con l’aggravante
che non li paga e non li ha mai pagati spontaneamente.
Intento, quello di non pagare, con il quale il legislatore ha operato su due
fronti.
Da un lato ha disposto che può essere esperita solo una speciale esecuzione
mobiliare presso il debitore («…pignoramenti e i sequestri esclusivamente
secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile, con
atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario
delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in
esecuzione»); dall’altro, ha escluso esecuzioni presso le tesorerie precisando
pleonasticamente (ad evitare ogni equivoco e accantonamento di somme)
che: «gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla Tesoreria
centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano obblighi di
accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né sospendono l’accreditamento
di somme a favore delle Amministrazioni interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono
dichiarazione negativa, richiamando gli estremi della presente disposizione di
legge» (n. 4 art. 5 quinquies).
La principale innovazione normativa è però che il creditore di un decreto
Pinto può eseguire i pignoramenti e i sequestri esclusivamente con una
espropriazione forzata presso il debitore (con esclusione di esecuzioni
mobiliari presso terzi), con atto notificato al Ministero della Giustizia,
Ministero dell’Economia e Finanze e Ministero della Difesa, ovvero al
funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento
giurisdizionale posto in esecuzione.
Norma sconcertante perché questi in uffici non è mai esistita alcuna somma
soggetta ad esecuzione forzata.
Norma in sostanza affetta da svariati profili di incostituzionalità con
riferimento agli artt. 3, 24, 41, 42 e 111 Costituzione.
ART 3. È violato l’art. 3 della C. sotto il profilo dell’uguaglianza perché un
creditore nei confronti dello Stato il cui credito scaturisce da un decreto Pinto
è discriminato rispetto ad un creditore che vanti un credito che derivi da altro
che un decreto ex L. 89/01, cosa invero singolare.
Mentre cioè ogni cittadino può esperire qualsiasi tipo di esecuzione nei
confronti dei propri debitori, un creditore ex legge Pinto, non solo può
esperire solo una particolare esecuzione mobiliare presso il debitore
(con «..atto notificato ai Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, ovvero al
funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento
giurisdizionale posto in esecuzione..»), ma, per di più, si tratta di un tipo di
azione destinata a non produrre altro esito che un inutile dispendio di denaro
e di tempo, tanto più che non possono nemmeno essere aggrediti tutti i beni
del debitore, ma solo i fondi esistenti nella contabilità destinati al
pagamento dei decreti Pinto, che non esistono.
Una violazione, quella dell’art. 3 della C., che, già in generale, è
particolarmente grave, ma che in questo caso è di una anomalia che
sconcerta.
Un principio di cui la Corte costituzionale ha fatto larga applicazione in
moltissime decisioni eliminando da vari settori dell’ordinamento norme
discriminatorie verificando anche l’intrinseca ragionevolezza delle scelte
legislative, anche indipendentemente dalla comparazione tra norme.
Principio sempre ribadito sia in relazione alla disciplina generale che in
relazione alla censurabilità delle deroghe ingiustificate rivolto al riequilibrio
del sistema mediante il ripristino di una disciplina eguale per tutti e la
caducazione di deroghe non sorrette da validi motivi (Ordinanza n.
582/1988).
Nella fattispecie la disparità di trattamento tra i creditori di un decreto Pinto
e gli altri creditori e tanto macroscopica quanto ingiustificata.
Art. 3, co. 1 e 2 Cost. è violato anche sotto il profilo della ragionevolezza per
essere del tutto irragionevole limitare il diritto a procedere ad esecuzione
forzata, sia sotto il profilo della non esperibilità di tutti i tipi di esecuzione
forzata («..non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria
centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di
somme liquidate a norma della presente legge..»), sia sotto il profilo di limitare
l’esecuzione forzata presso il debitore alla disponibilità dei fondi in bilancio
(«..sempreché esistano in contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata..»).
Canone della ragionevolezza al quale innumerevoli volte la Corte
Costituzionale è ricorsa per decretare l’illegittimità delle norme.
Principio di ragionevolezza che più volte in passato la Corte ha valutato
secondo logiche concordi all’uguaglianza di cui all’art. 3, di modo che la
norma irragionevole era costituzionalmente illegittima in quanto
apportatrice di irragionevoli discriminazioni.
Una impostazione alla quale conseguiva che, per accertare l’irragionevolezza,
era necessario individuare il c.d. tertium comparationis.
Principio di ragionevolezza che, una volta affrancato sia dal principio di
uguaglianza che dalla ricerca del tertium comparationis, la Corte ha poi potuto
affermare anche in assenza di una sostanziale disparità di trattamento tra
fattispecie omogenee, allorché la norma presenti una intrinseca incoerenza,
contraddittorietà o illogicità rispetto al contesto normativo (sentenza n.
450/2000) o rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore
(sentenza n. 416/2000).
Al canone della ragionevolezza la Corte è venuta aggiungendo il canone del
bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti ed il canone delle
compatibilità finanziarie o di sistema.
Nel caso di specie nella norma oggetto di censura vi è una palese incoerenza
e illogicità, rispetto al contesto normativo, in materia di esecuzione forzata,
atteso che sussiste un principio generale secondo cui il creditore, nell’ambito
del territorio dello Stato, può aggredire TUTTI i beni del debitore.
Un principio che, se valido per i privati, dovrebbe a maggior ragione esserlo
per i soggetti pubblici, che più dei privati dovrebbero osservare le leggi.
Discriminazione dunque illogica, incoerente, priva di giustificazioni, nel caso
che ci occupa, atteso che non vi è alcuna ragione per sacrificare i creditori di
decreti Pinto rispetto ad altri tipi di creditori.
ART. 24 C. È palese la violazione dell’art 24 C. sotto il profilo della violazione
del diritto di difesa, fortemente limitato quando si sia creditori ex lege Pinto,
vista la limitazione delle azioni esecutive, al solo pignoramento mobiliare
presso il debitore e solo delle somme (inesistenti) iscritte in bilancio all’uopo.
Non v’è dubbio che il diritto di difesa, in un ordinamento democratico
fondato sulla Costituzione, si elevi a valore preminente e inviolabile, al pari
del diritto di libertà. Qui invece si è istituito che tutti possano agire per la
difesa dei propri diritti ed interessi legittimi, salvo i creditori ex lege Pinto.
L’art. 24 della Costituzione è infatti inserito nella Parte I, dedicata ai «diritti e
doveri dei cittadini» e ai «rapporti civili», compresi tra l’art. 13 e l’art. 28 della
Costituzione.
Dunque, il diritto affermato dall’art. 24 della Costituzione si trova accanto a
tutte le varie forme di libertà, che costituiscono il fondamento dei valori
garantiti dell’ordinamento democratico.
Nella L. n. 98/1984, ad esempio, la Corte Costituzionale attribuisce all’art.
24: «valore preminente, essendo il diritto di difesa inserito nel quadro dei diritti
inviolabili della persona».
Un diritto, quello alla difesa, gravemente compromesso da una norma che,
come qui, elimini nella sostanza la possibilità di agire in giudizio mediante
uno strumento che per di più non è uno tra i tanti al quale poter ricorrere,
ma l’unico, perché dopo questa norma non resta di fatto che il ricorso al
giudizio di ottemperanza, che da possibilità di agire caratterizzate da tempi
così lunghi da rendere inattuale la legittima aspettativa del creditore ad
essere pagato.
Norma quindi, quella oggetto della censura di incostituzionalità, che
impedisce di fatto la possibilità di agire in giudizio ex esecutivis, o quanto
meno limita fortemente il potere di agire in giudizio, nell’ambito
dell’esecuzione forzata, a quei cittadini il cui credito scaturisce dai decreti
esecutivi ex Legge Pinto.
ART. 41 e 42 Cost. Sono violati gli articoli 41 e 42 della C. sotto il profilo della
lesione dell’iniziativa privata e della proprietà privata in quanto il cittadino
proprietario di somme portate da un titolo esecutivo non può di fatto entrare
in possesso dei propri beni (somme liquidate nei decreti ex L. Pinto).
L’art. 41 tutela l’iniziativa economica privata, che trova nel diritto di
proprietà il suo presupposto.
Nella formulazione di cui all’art. 42, secondo comma: «la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di godimento e i limiti
allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
«L’adozione delle locuzioni riconoscere e garantire consente di potere estendere la
tutela del privato non solo alla vicenda dell’appartenenza del bene al suo titolare,
bensì anche a tutte le altre modalità di godimento; nel senso che il riconoscimento
della rilevanza degli interessi generali e della loro prevalenza su quelli individuali non
può rappresentare un giusto limite quando esso stesso è tale da vanificare il
riconoscimento e la garanzia che il secondo comma dell’art. 42 offre al proprietario»,
(Alfio Finocchiaro, Il diritto di proprietà nella giurisprudenza costituzionale
italiana, in
http://www.cortecostituzionale.it/documenti/filesDoc/Finocchiaro_8-
10.10.2009.pdf)
Nella determinazione della tutela della proprietà hanno grande rilevanza
anche i principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, nella sua funzione di
interprete della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, come meglio specificato
infra.
Con riferimento al caso di specie il diritto di proprietà sulle somme di denaro
di cui è titolare un soggetto che ha avuto riconosciuto un equo indennizzo ex
L. 89/01 viene di fatto compresso e compromesso, in quanto detto cittadino
non può agevolmente, o non può affatto, entrare in possesso delle somme di
denaro delle quali gli è stato riconosciuto il diritto.
Il diritto di proprietà è quindi violato sotto il profilo del godimento effettivo,
in violazione degli artt. 41 e 42 Cost.
ART. 111 Cost. È violato l’art. 111 C. sotto il profilo del diritto ad un giusto
processo e all’effettivo soddisfacimento del diritto. Ciò anche in riferimento
all’ Art. 6 CEDU e all’art. 41 Prot. Add. CEDU sotto il profilo della garanzia che
lo Stato deve dare della effettiva soddisfazione delle pretese risarcitorie ex
lege Pinto entro sei mesi dalla esecutività delle sentenze che le riconoscono
sul piano interno.
La Corte di Strasburgo infatti si è più volte e da tempo pronunciata nel senso
che il mancato pagamento dei decreti Pinto costituisce ulteriore violazione
dell’art 6 CEDU e dell’art 41 Prot. Add. CEDU, violando il principio
dell’effettività della tutela.
La materia, oltre che in numerosi altri precedenti, è ampiamente trattata
nelle nove sentenze della Grande Camera del 29.3.06, (Scordino ed altri
c/Italia, rg 36813/1997; Musci c/Italia n. 64699/01; Mostacciolo c/Italia, n.1, n.
64705/01; Mostacciolo c/Italia, n. 2, n. 65102/01; Cocchiarella c/Italia, n.
64886/01; Apicella c/Italia, n. 64890/01; Zullo c/Italia, n. 64897/01;
Procaccino c/Italia n. 65075/01; Pizzati c/Italia n. 62361/00).
Sulla specifica fattispecie del diritto al risarcimento per il ritardo nel
pagamento delle somme spettanti per equa riparazione si veda di recente:
Casi Di Micco Governo italiano Application n. 35770/03 sentenza del 28 luglio
2008 2 sezione.
In particolare nel caso Simaldone\Italia (Affaire n. 22644/03, sentenza del
31/03/2009) è stato stabilito che gli interessi legali non escludono il diritto
ad un ulteriore equo indennizzo per il ritardo nel pagamento delle sentenze
L. Pinto.
È noto e pacifico che lo Stato italiano, con riferimento alla lungaggine
processuale, presenta disfunzioni tali da negare e/o differire il più possibile
l’esercizio dei diritti. La Grande Camera (sentenza del 29.03.06 citata) ha in
proposito affermato:
–55. «Una volta che una decisione è stata ottenuta dalla Corte d’Appello, lo
Stato non provvede spontaneamente al pagamento, ma costringe il ricorrente
a notificare la decisione alla autorità, attendere 120 giorni dopo la notifica,
quindi fare un’istanza e qualche volta ricorrere per un provvedimento
esecutivo, non sempre con successo perché i fondi possono non essere
disponibili».
–89. «..il diritto di accesso ad un tribunale garantito dall’art. 6, par. 1 della
Convenzione sarebbe illusorio se il sistema legale di uno Stato contraente
consentisse che una decisione giudiziaria finale vincolante rimanesse
inefficace a danno di una parte. L’esecuzione di un giudizio pronunziato da
una qualunque Corte deve quindi essere considerato come parte integrante
del ‘processo’ ai fini di cui all’art. 6».
–103. «Questa Corte sottolinea che, per essere effettivo, un rimedio
risarcitorio deve essere accompagnato da un adeguato finanziamento, così
che possa essere dato effetto alle decisioni entro sei mesi dal loro essere
depositate nel registro della corte d’appello che riconosce il risarcimento,
che, come dalla legge Pinto, sono immediatamente esecutive».
Il concetto è stato ribadito anche nella sentenza del 21.12.2010, Gaglione
c/Italia (ric. nn. 45867/07, 45918/07, 45919/07, 45920/07, 45921/07,
45922/07, 45923/07, 45924/07, 45925/07, 45926/07, 45927/07, 45928/07,
45929/07), in cui si accerta la violazione degli artt. 6, 6-1, 34, 35, 35-1, 35-
3, 35-3-b, 41, 46, 46-2, P1-1, P1-1-1 CEDU e si statuisce:
«Lo Stato deve garantire l’effettiva soddisfazione delle pretese risarcitorie ex lege
Pinto entro sei mesi dalla esecutività delle sentenze che riconoscono tali pretese sul
piano interno. Lo stato non può richiedere ai propri cittadini di ricorrere avverso le
inefficienze della L. Pinto attraverso la Pinto stessa. Il riconoscimento degli interessi
moratori non è sufficiente a riparare i danni morali patiti a causa dell’eccessiva
durata del procedimento esecutivo. Si raccomanda allo Stato Italiano di intervenire
quanto prima per arginare tale situazione, in particolare emendando ove necessario
la L. Pinto, ed istituendo un fondo ad hoc per il risarcimento dei danni da eccessiva
durata del processo».
Nel caso che ci occupa l’essere oltremodo difficoltoso recuperare le somme di
cui il cittadino è creditore rende inefficace il principio dell’effettivo
soddisfacimento del diritto, con violazione anche del principio che il
pagamento deve avvenire entro 6 mesi dall’emanazione del decreto Pinto,
con conseguente violazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 6 CEDU e
art. 41 Prot. Add. CEDU.
Si solleva quindi la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 8
aprile 2013, n. 35 art. 6 co. 6 che stabilisce:
«Art. 5-quinquies – Esecuzione forzata. 1. Al fine di assicurare un’ ordinata
programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma della
presente legge, non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la
Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione
coattiva di somme liquidate a norma della presente legge.
2. Fermo quanto previsto dall’articolo 1, commi 294-bis e 294-ter, della legge 23
dicembre 2005, n. 266, i creditori di dette somme, a pena di nullità rilevabile d’ufficio,
eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro
III, titolo II, capo II del codice di procedura civile, con atto notificato ai Ministeri di cui
all’articolo 3, comma 2, ovvero al funzionario delegato del distretto in cui è stato
emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione, con l’effetto di
sospendere ogni emissione di ordinativi di pagamento relativamente alle somme
pignorate. L’ufficio competente presso i Ministeri di cui all’articolo 3, comma 2, a cui
sia stato notificato atto di pignoramento o di sequestro, ovvero il funzionario delegato
sono tenuti a vincolare l’ammontare per cui si procede, sempreché esistano in
contabilità fondi soggetti ad esecuzione forzata; la notifica rimane priva di effetti
riguardo agli ordini di pagamento che risultino già emessi.
3. Gli atti di pignoramento o di sequestro devono indicare a pena di nullità rilevabile
d’ufficio il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione.
4. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati alla Tesoreria
centrale e alle Tesorerie provinciali dello Stato non determinano obblighi di
accantonamento da parte delle Tesorerie medesime, né sospendono l’accreditamento
di somme a favore delle Amministrazioni interessate. Le Tesorerie in tali casi rendono
dichiarazione negativa, richiamando gli estremi della presente disposizione di
legge.», per violazione degli artt. 3, 24, 41, 42 e 111 della Costituzione».
Si chiede in conseguenza che il Giudice, previa sospensione del processo e
l’emissione di ogni ulteriore provvedimento inerente opportuno e
consequenziale, voglia sollevare la questione di illegittimità costituzionale
del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 art. 6 co. 6 e rinviare la questione alla
Corte costituzionale, con emissione di ordinanza con la quale, riferiti i
termini e i motivi della istanza con cui è stata sollevata la questione,
disponga l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
sospenda il giudizio in corso ed ordinando che, a cura della Cancelleria,
l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata,
quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in
causa ed al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio,
nonché al Presidente del Consiglio dei ministri od al Presidente della Giunta
regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di
legge dello Stato o di una Regione. L’ordinanza viene comunicata dal
cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento o al
Presidente del Consiglio regionale interessato, con l’emissione di ogni
ulteriore provvedimento opportuno e conseguenziale.
Avv. Alfonso Luigi Marra